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Vietnam: la giustizia si è fermata a My Lai

Il 16 marzo 1968, giusto cinquant’anni fa, un villaggio vietnamita ha subito quello che molti altri villaggi vietnamiti hanno subito prima e dopo di lui: una strage contro i civili ad opera di soldati americani che non hanno risparmiato neonati, bambini, donne e anziani. Nessun colpo viene sparato contro gli attaccanti che credono di dover smantellare una base di appoggio dei vietcong. Eppure per molto tempo i comandi Usa hanno sostenuto che in quella azione erano stati eliminati 128 pericolosi partigiani comunisti. Poi, la coscienza di alcuni militari statunitensi e la stampa hanno rovesciato la situazione e fatto diventare My Lai un simbolo di quello che per molti anni era accaduto in Vietnam. Ma per quel massacro, di fatto, non ha pagato nessuno…

di Luca Di Bella da Storia in Rete n. 148\149

Il nocciolo della questione sta tutto in un principio semplice e brutale: «Niente villaggi, niente partigiani». Attenzione però a non cadere in facili conclusioni: a teorizzarlo e a metterlo in pratica non sono stati i nazisti ma l’esercito degli Stati Uniti in Vietnam negli anni Sessanta. E mentre dei massacri fatti dai tedeschi dalla Francia alla Russia passando per Italia e Balcani sappiamo, se non tutto, di sicuro moltissimo, di quello che hanno fatto gli Usa in Vietnam, nonostante quello che si pensi, non conosciamo che la classica punta dell’iceberg. Tanto è vero che a simbolo delle atrocità commesse a ripetizione dai soldati americani in Vietnam c’è una strage che non è stata né la più cruenta né la prima. E a dirla tutta non è stata neanche l’ultima. Semplicemente per My Lai, a differenza di molte altre volte, qualcosa è andato storto e la macchina dell’insabbiamento e dell’omertà, che in genere ha funzionato bene prima e dopo il 16 marzo 1968, per una volta ha fatto cilecca. Il merito di quel «clic» a vuoto va soprattutto ad alcuni uomini – militari Usa anche loro – che impareremo a conoscere tra poco.

Tra quei soldati non c’è sicuramente il colonnello Oran K. Henderson, l’ufficiale più alto in grado finito davanti ad un tribunale militare (e assolto come quasi tutti) per l’eccidio di My Lai. Ma al colonnello Henderson dobbiamo comunque una dichiarazione esemplare: «Tutti i reparti a livello di brigata tengono nascosto da qualche parte un proprio My Lai ma non tutti hanno il proprio Ridenhour». Henderson si riferiva a Ronald Ridenhour (1946-1998) che quel giorno a My Lai non c’era ma che come vedremo ha fatto molto perché quella storia terribile venisse a galla. Ma adesso basta anticipare: prendiamo la storia dal suo inizio. Inizio che possiamo fissare nelle 24 ore precedenti l’eccidio.

Il 15 marzo 1968 il colonnello Henderson riunisce i suoi ufficiali in vista dell’azione pianificata per il giorno successivo. Henderson comanda la XI Brigata della 23a Divisione di fanteria Americal operativa nel Vietnam centrale, lungo la costa: buona parte dei suoi uomini sono in Vietnam da pochi mesi e hanno già alle spalle numerosi scontri, vari rovesci e molte perdite. Infatti si è conclusa da poco la famosa «Offensiva del Têt» (gennaio 1968) con la quale l’esercito comunista del Vietnam del Nord appoggiato dalle formazioni irregolari del Fronte nazionale di Liberazione del Vietnam (i famosi vietcong) ha messo alle corde per qualche settimana le forze armate del Vietnam del Sud e degli americani. Dopo giorni di combattimenti feroci i vietnamiti del sud e gli americani riescono con gran fatica a riprendere le posizioni perdute e a stabilizzare il fronte ma ormai il guaio psicologico è fatto: anche se non hanno trionfato, i comunisti hanno comunque dimostrato di poter mettere alle corde il gigante Usa, tanto grande quanto fragile psicologicamente, tanto è vero che è proprio da quel mezzo rovescio militare che alcuni storici fanno iniziare la parabola discendente dell’impegno Usa in Indocina. Tra le tante perdite subite dagli Stati Uniti in quel drammatico inizio del 1968 ce ne sono alcune che sono importanti per la nostra storia: si tratta di 28 soldati saltati per aria in un campo minato nella provincia Quang Ngai nella regione di Nam Trung Bo. Quei soldati appartenevano alla compagnia C del primo battaglione del 20° reggimento di Fanteria della XI Brigata comandata dal colonnello Henderson che già conosciamo. Henderson aveva creato, all’interno della sua brigata, una task force composta da alcune compagnie incaricate di rastrellare e distruggere le possibili basi di appoggio dei vietcong. La task force era al comando del tenente colonnello Frank A. Barker che dava il suo nome al raggruppamento anti-partigiano. Barker era a fianco di Henderson in quella riunione del 15 marzo 1968 nel corso della quale il colonnello incita gli ufficiali ad avere un atteggiamento aggressivo, scovare il nemico e distruggerlo. Barker è ancora più esplicito: i reparti sul campo dovranno bruciare case e capanne, uccidere il bestiame, distruggere tutti i viveri e sabotare i pozzi d’acqua. Non accenna ai civili ma visti i tempi non è una buona cosa. A rendere ancora più esplosiva la situazione provvede infine il capitano Ernest Medina, comandante della compagnia C che informa i suoi uomini che l’indomani tutti i civili dei villaggi obbiettivo dell’operazione sarebbero andati ad un mercato per cui chiunque fosse stato presente tra le case era da considerare come un vietcong o un fiancheggiatore della resistenza. In entrambi i casi bisognava sparare senza farsi troppi problemi. Alla domanda su come si potevano distinguere i nemici dai semplici civili, Medina fu chiarissimo: «È un nemico chiunque fugga al nostro arrivo, chiunque si nasconda, chiunque sembri un nemico».

Quello che Henderson, Barker e Medina avevano detto ai loro uomini era esattamente quello che migliaia di altri ufficiali avevano detto prima e dopo di loro in Vietnam in un numero imprecisato di situazioni. Il corrispondente del «New York Times» dal Vietnam, Ronald Walter Apple jr. scrisse di aver sentito ripetere «cento volte dai maggiori, dai sergenti e dai soldati qual era la norma per trattare i bastardi». La regola era semplice e chiara: «tutto ciò che si muove ed ha la pelle gialla è un nemico, a meno che si abbia la prova inconfutabile del contrario». Scatenando il terrore tra i civili i vertici militari Usa contavano di poter fare finalmente terra bruciata intorno ai vietcong che si muovevano da padroni nelle campagne e nei villaggi. Negli anni Settanta, il giornalista del «New York Times», Premio Pulitzer, Neil Sheehan venne in possesso di documenti segreti che dimostravano come gli alti comandi Usa avessero pianificato bombardamenti aerei e di artiglieria sui villaggi rurali del Vietnam del Sud per terrorizzare i contadini, distruggere i raccolti, uccidere il bestiame e svuotare le campagne. Ancora Apple ha riferito di un suo colloquio con un generale Usa: «Mi ha così spiegato il concetto: “Per prosciugare il mare in cui nuotano i partigiani – ossia i contadini – la cosa migliore è scatenare l’inferno nei loro villaggi, di modo che vengano nei nostri campi profughi. Semplice, niente villaggi, niente partigiani”». Quanto tutto questo sia stato assimilato dai militari statunitensi in Vietnam lo conferma un episodio a margine della tragedia di May Lai. Poco dopo la strage si venne a sapere che il dottor Alje Vennema, direttore di un ospedale canadese operativo poco lontano da May Lai, era stato informato subito di quanto era accaduto ma non aveva preso nessuna iniziativa in quanto a suo dire «non era avvenuto nulla che uscisse dalla normalità. I suoi pazienti parlavano continuamente di fatti del genere» e, del resto, già prima dell’eccidio di May Lai la provincia di Quang Ngai era già stata praticamente devastata dalla guerra. Si è infatti stimato che in quella sola provincia l’anno precedente le perdite civile erano state di circa 50 mila unità.

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All’alba dell’11 marzo 1968, quando i soldati della compagnia C della XI Brigata arrivarono sull’obbiettivo, dopo essere stati trasportati in zona con gli elicotteri, trovarono quello che non si aspettavano perché gli abitanti di My Lai (di fatto un agglomerato di quattro nuclei di case e capanne distanti tra loro poche centinaia di metri) non erano andati a nessun mercato, purtroppo per loro. Ovviamente spaventati e consapevoli di quanto era già accaduto mille altre volte, i vietnamiti alla vista dei soldati Usa cercarono di scappare nella boscaglia dando così l’occasione agli americani di sparare perché, come aveva detto il capitano Medina, «è un nemico chiunque fugga al nostro arrivo». Per quattro ore circa la follia si impossessò dei soldati Usa, convinti ad un tempo di vendicare i propri compagni morti e di eseguire gli ordini ricevuti dai propri superiori. Particolarmente motivati si mostrano subito gli uomini del primo plotone, quello comandato dal tenente William Laws Calley il cui nome è ormai indissolubilmente associato a quel massacro anche perché è stato l’unico ad essere stato formalmente condannato per quanto accadde quel giorno. Con lui altre 25 militari sono stati considerati responsabili di crimini di guerra anche se questo non ha significato per loro né una condanna anche simbolica né, quindi, un solo giorno di carcere. E questo nonostante per lo più fossero, tutto sommato, rei confessi. Ecco quanto dichiarò, qualche tempo dopo, ad esempio il soldato semplice Varnado Simpson: «Non dovevi cercare la gente per ucciderla: erano proprio lì. Tagliai le loro gole, le loro mani, le loro lingue, li scotennai. Io feci questo. Molti di noi facevano questo ed io feci come gli altri. Avevo del tutto perso il senso della direzione». Ed ecco la testimonianza del caporale Jay Roberts: «Le truppe accostarono un gruppo di donne, inclusa una adolescente. Un GI [«Government Issue» o «General Issue», termine gergale per indicare i soldati americani NdR] afferrò la ragazza e con l’aiuto degli altri cominciò a svestirla. “Vediamo come è fatta”, disse uno. “Viet-cong bum bum“, disse un altro, dicendo alla ragazzina che era una prostituta dei viet-cong. “Ho voglia”, disse un terzo. Mentre spogliavano la ragazzina, con cadaveri e capanne bruciate tutt’attorno, la mamma della ragazza cercò di salvarla. Un soldato le diede un calcio, un altro la schiaffeggiò. Ron Haeberle [un fotografo dell’esercito NdR] si precipitò a fare una fotografia al gruppo di donne. Quando si accorsero di Ron, lasciarono perdere e si voltarono come se tutto fosse normale. Poi un soldato chiese: “Beh, che ne facciamo, di loro?”. “Uccidile”, rispose un altro. Sentii partire un M60, e quando ci voltammo erano tutte morte, compresi i bambini che avevano con loro». Un altro soldato, Paul David Meadlo, ha ricordato cosa gli disse il tenente Calley quando lo trovò a fare la guardia ad un gruppo di civili, poco fuori l’abitato: «Il tenente Calley arrivò e mi disse: “Sai quello che devi fare di loro, giusto?”. E io risposi: “Sì”. Si allontanò e tornò dopo 10 minuti e mi disse: “Come mai non li hai ancora uccisi?”. E io gli dissi che non pensavo che volesse che li uccidessimo ma solo che li sorvegliassimo. La risposta fu invece: “No, li voglio morti”. E incominciò a sparare su di loro. Mi disse di cominciare a sparare. Svuotai circa quattro caricatori su di loro. Potrei aver ucciso 10 o 15 persone». Anche il capitano Medina fu visto sparare contro donne e bambini. Secondo i vietnamiti quel giorno, tra gli altri, morirono 50 bambini tra zero e tre anni, 69 vittime avevano invece tra i 4 e i 7 anni e 91 tra gli 8 e i 12 anni. Gli anziani di oltre 70 anni eliminati dagli americani quel giorno furono invece 27.

I racconti di eccidi alla fine si assomigliano tutti: a My Lai il campionario delle atrocità è stato percorso tutto, con scrupolo criminale: uccisioni a sangue freddo, violenze sessuali, torture e sevizie, uso di armi pesanti contro civili inermi, bambini di pochi mesi o pochi anni, tutti scannati senza pietà, senza nessun riguardo anche per donne e anziani… Il monumento che oggi ricorda la strage e che sorge sul luogo dell’eccidio parla di 504 morti ma altre stime fissano a poco più di 400 il numero delle vittime di quel giorno mentre un’inchiesta dell’esercito Usa indica 347 morti dopo che si era parlato di 20 morti al massimo e poi di circa 200… Un conteggio comunque difficile, specie per gli americani che avevano già da tempo scelto di non contare con attenzione le vittime civili delle loro azioni. E infatti, nei rapporti stesi a caldo dagli ufficiali che avevano condotto l’operazione sul campo, si sostenne che erano stati eliminati ben 128 vietcong oltre a 22 civili. Nonostante non fosse stato sparato un solo colpo contro di loro e non fossero stati lamentati morti o feriti tra le loro file, a My Lai gli americani sostennero di aver eliminato i nemici nel corso di «una lotta feroce». Il giornale dell’esercito Usa «Stars and Stripes» parlò di «comunisti uccisi durante una sanguinosa giornata di combattimenti». Era iniziata la solita, efficace, operazione di insabbiamento dell’ennesima strage «giustificata» dalla lotta antiguerriglia.

Ma, come abbiamo detto, le cose andarono storte per i vertici militari Usa. E iniziarono ad andare nel verso sbagliato mentre la strage era ancora in corso perché senza l’intervento del capitano Hugh Thompson jr., pilota di uno degli elicotteri d’appoggio all’azione, infatti il bilancio della strage sarebbe stato molto più alto. Sorvolando la zona mentre gli uomini di Medina e Calley erano ancora in azione, Thompson vide numerosi cadaveri e decise di atterrare per interrompere la carneficina. Addirittura, dopo aver capito che Calley e gli altri non avevano nessuna intenzione di smettere, minacciò di far aprire il fuoco alle mitragliere del suo elicottero se non fosse stato consentito ad un gruppo di civili di allontanarsi e mettersi in salvo. Alla fine i suoi sforzi serviranno a salvare 11 persone: poche rispetto ai tanti morti di quella giornata. Ma Thompson per le vittime di My Lai ha fatto anche altro: appena rientrato alla base denunciò subito l’accaduto ai suoi superiori, sostenuto dal suo equipaggio e da altri elicotteristi che dall’alto avevano visto a loro volta quello che stava accadendo. Thompson tornerà a denunciare e a protestare anche in seguito ed è probabilmente grazie a lui se il colonnello Henderson apre una prima inchiesta-farsa sull’accaduto: a fine aprile il Comando di Brigata chiude le indagini (essenzialmente condotte interrogando alcuni soldati) e ammette nel suo rapporto che «circa 20 civili sono stati uccisi inavvertitamente durante l’operazione». In realtà quello che è successo davvero lo sanno troppe persone e qualcosa comincia a muoversi anche perché, come sappiamo, My Lai non è stato un caso isolato.

Nell’ottobre 1968 un altro soldato americano, Tom Glen, anche lui della XI Brigata di stanza in Vietnam, scrive una lettera-denuncia ai suoi superiori per segnalare le continue brutalità commesse dai suoi commilitoni nei confronti della popolazione civile. La burocrazia prevede che in caso di denunce si proceda con degli accertamenti: la pratica viene assegnata ad un giovane maggiore destinato in seguito ad una folgorante carriera. Si tratta del maggiore Colin Powell che in seguito sarà capo di stato maggiore delle forze armate Usa tra il 1989 e il 1993 e poi segretario di Stato sotto la presidenza di Bush jr. (è lui quello che ha mostrato pubblicamente all’Onu le prove fasulle sulle armi chimiche di Saddam Hussein, una consapevole bugia che ha giustificato la seconda guerra in Iraq). Nel 1968 Powell scrisse un rapporto in cui confutava tutte le affermazioni di Glen (che non aveva mia citato espressamente My Lai) e arrivava a sostenere addirittura che «le relazioni tra i soldati della divisione Americal e la popolazione vietnamita sono eccellenti».

Il tentativo di insabbiare quanto era accaduto a My Lai e, più in generale, di negare quanto accadeva quotidianamente in tutto il Vietnam del Sud, è andato ben oltre i rapporti di militari di medio livello come Henderson o Powell. A Washington per circa due anni si cercò di fermare la diffusione delle notizie ai più alti livelli politici. A far scattare uno scontato meccanismo di autodifesa era stata l’ennesima lettera di denuncia scritta da un militare: questa volta si trattava di un mitragliere d’elicottero, anche lui in forza alla XI Brigata: Ronald Ridenhour. Ridenhour fece le cose in grande perché non solo spedì la sua denuncia ai propri superiori ma, quando fu chiaro che non si sarebbe mosso nulla, ne fece altre 30 copie e le spedì ad altrettanti membri del Congresso, chiedendo espressamente che si indagasse seriamente sui fatti di My Lai. Su trenta tra deputati e senatori si mossero solo in tre ma questa volta fu più che sufficiente: venne investita della questione la Commissione per le Forze Armate della Camera dei Rappresentanti che a sua volta istituì una sotto-commissione ad hoc. Nonostante molti deputati gridassero al tradimento e ostentassero disprezzo per chi cercava di mettere sul banco degli imputati l’esercito americano a quel punto non fu più possibile tenere la cosa sotto controllo nonostante gli sforzi del neo presidente eletto Richard Nixon che si impegnò personalmente per ostacolare l’inchiesta. Ma ormai la storia era giunta alle orecchie dei giornalisti: a far precipitare la situazione fu soprattutto un’inchiesta pubblicata dall’agenzia Associated Press e scritta da Seymour Hersh (che vincerà il Premio Pulitzer per questo nel 1970). Era il 12 novembre 1969, un anno e mezzo dopo il massacro compiuto dagli uomini del sottotenente Calley e del capitano Medina. Il 20 novembre, una settimana più tardi, My Lai era nei titoli di testa dei telegiornali e sulle copertine dei maggiori settimanali Usa: «Time», «Life» e «Newsweek».

Le inchieste giornalistiche costringono il Pentagono ad una nuova indagine, affidata questa volta al generale William R. Peers. A Peers servono quattro mesi per ricostruisce i fatti di My Lai: la sua relazione finale è pronta, forse non a caso, il 17 marzo 1970, a due anni esatti dall’eccidio. Secondo Peers le vittime sarebbero state tra le 175 e le 200 e precisa che tra loro comunque c’era sicuramente qualche vietcong, sia pure disarmato, mentre altri abitanti del villaggio erano altrettanto sicuramente fiancheggiatori o simpatizzanti della resistenza. Peers, pur condannando l’operato degli ufficiali della XI Brigata (sia chi aveva «insabbiato» sia chi aveva agito sul campo) non chiede però nessun provvedimento disciplinare. Passa ancora del tempo e solo nell’estate 1970 si decide di procedere: si istituisce una corte marziale per giudicare 14 ufficiali (dal comandante della 23a divisione di Fanteria, generale Samuel W. Koster al sottotenente Calley) e una decina di sottufficiali e soldati semplici. Il processo inizia in novembre e si protrae per circa quattro mesi: subito appare evidente che a pagare – se qualcuno davvero pagherà per la strage – saranno i pesci piccoli. Anzi il più piccolo in assoluto: nonostante Calley dica in tutte le salse di aver eseguito semplicemente gli ordini (un vecchio refrain, non c’è che dire…) del suo diretto superiore, il capitano Medina, alla fine è su di lui che si concentra l’attenzione dei giudici prima e, dopo, della Storia. Ancora oggi My Lai è considerata soprattutto farina del sacco di quel sottotenentino di 28 anni (a My Lai ne aveva 24) che comunque impiegherà la bellezza di quasi 40 anni per chiedere pubblicamente scusa per quello che aveva fatto. Già, ma che aveva fatto? Ancora una volta verità storica e verità giudiziaria non hanno coinciso neanche un po’: il 31 marzo 1971 Calley viene infatti condannato – solo lui tra tutti gli imputati – per aver ucciso o fatto uccidere non 504 persone (come sostengono i vietnamiti) e neanche le 170 che ammise l’inchiesta del generale Peers ma «solo» 20 civili. Comunque tanto basta perché la condanna sia, in apparenza, dura ed esemplare: ergastolo e lavori forzati. Non sconterà nulla di tutto ciò perché solo due giorni dopo la sentenza, il presidente Nixon, che non era riuscito a bloccare lo scandalo, interviene con i suoi soliti modi bruschi e ordina che Calley sia trasferito agli arresti domiciliari in attesa del giudizio d’appello. È la prima mossa del sistema militare-politico per salvare, per quanto possibile, il soldato Calley: prima la pena viene ridotta a 20 anni di carcere, poi Calley viene inviato per tre mesi in una caserma disciplinare nel Kansas, quindi rimandato ai domiciliari. Infine, nel settembre 1974 Washington decide la sua liberazione definitiva e così Calley può rientrare nell’anonimato e cercare di farsi dimenticare.

Nel 1970, l’ex responsabile statunitense dell’accusa al processo di Norimberga ai dirigenti del Nazionalsocialismo, Telford Taylor (1908-1998) scrisse un libro dal titolo «Norimberga e il Vietnam – Una tragedia americana». La tesi di Taylor era, semplicemente, che i principi giuridici sui crimini di guerra affermati a Norimberga contro i nazionalsocialisti avrebbero potuto e dovuto valere per tutti i militari e quindi anche per gli alti comandi statunitensi in Vietnam. Non è andata così perché non tutti i criminali di guerra sono uguali come Taylor avrebbe dovuto ben sapere. Quello per My Lai è stato uno dei 36 processi che la Corte Marziale statunitense ha istruito contro militari Usa impiegati in Vietnam tra il 1965 e il 1973. Nello stesso periodo un gruppo di ricerca indipendente – il Vietnam War Crimes Working Group – ha documentato oltre 300 massacri, stupri e torture commessi dai soldati di Washington. Tra quei crimini non sono comprese le deportazioni forzate di massa come quella decisa dagli Usa nel gennaio 1969 quando, in vista della distruzione di una diga per allagare un ampio territorio che si voleva rendere inagibile ai vietcong, 12 mila contadini della regione del Batangan, poche decine di chilometri a nord-est di My Lai, vennero evacuati con gli elicotteri e portati in un campo profughi nei pressi di Quang Ngai (il capoluogo della regione in cui si trova anche My Lai). Su quel campo sventolava una bandiera con la scritta: «Vi ringraziamo per averci liberato dal terrore comunista». In quel campo c’erano ad attendere i nuovi arrivati anche tutti gli scampati al massacro del 16 marzo 1968 sui quali il destino non aveva quindi ancora smesso di infierire.

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