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Benito-Claretta: quegli inspiegabili buchi nell’epistolario

Una recente pubblicazione ha reso finalmente disponibili – dopo anni di polemiche e rifiuti – le lettere scritte da Mussolini all’amante Claretta Petacci durante i drammatici mesi della RSI. Ma curiosamente di cosa scrisse nello stesso periodo la donna al dittatore non si è pubblicato nulla. Inoltre si notano clamorose assenze come osserva uno storico e giornalista che alle lettere tra Claretta e Mussolini ha dato una caccia lunga decenni

di Luciano Garibaldi da Storia in Rete n.77

Qualcosa non quadra, nel libro di Benito Mussolini intitolato «A Clara», sottotitolo «Tutte le lettere a Clara Petacci», pubblicato dalla Mondadori a cura dell’Archivio di Stato (pp. 404, € 24,90). Ciò che non quadra è proprio quel sottotitolo. Le lettere scritte dal Duce alla sua amante nei mesi della RSI e riprodotte nel libro, infatti, sono tante (precisamente 318, recapitate alla destinataria tra il 10 ottobre 1943 e il 18 aprile 1945), ma non tutte. Mancano alcune, molto importanti sotto il profilo storico: quelle, cioè, relative ai contatti segreti con Churchill e ai tentativi di Mussolini di porre fine alla guerra in occidente per fare fronte comune con gli Alleati contro l’avanzata sovietica da oriente. Un esempio per tutti. Nel libro non c’è traccia della lettera scritta da Mussolini all’amante il 14 marzo 1945. Eccone il testo: «Claretta mia cara, hai ragione. Si avvicina il giorno in cui Hitler si convincerà della necessità di trattative dirette con l’Inghilterra. Lui conosce le mie possibilità. Ma ha paura, io conosco la ragione di questa sua paura. E maledico questa mia conoscenza, perché mi dà l’incubo di essere vile, di non sapermi decidere ad agire, sebbene senta l’assoluta necessità, anzi il dovere, di agire, finalmente. Però, agire d’accordo con Hitler significa rischiare di correre il pericolo di compromettere la nostra situazione e la nostra possibilità di salvare il salvabile. Agire di nostra iniziativa? Da soli? Non è consigliabile. Non voglio mettermi nella traccia dei Savoia e degli altri traditori! Quale tormento! E quale crisi di coscienza!». 

Una lettera da cui si evince che Claretta Petacci era a conoscenza di ogni problema politico dello Stato, anche dei più delicati. Al posto di questa missiva, e sempre con la stessa data del 14 marzo, il libro Mondadori-ACS propone un’altra breve lettera con cui il Duce accompagna all’amante un libro di Grazia Deledda! Ma andiamo avanti. Il 2 aprile di quel fatale 1945, Claretta aveva fatto recapitare al Duce, dal fedelissimo SS-Obersturmführer Franz Spögler, la seguente lettera: «La mia convinzione, ferma, è sempre una sola: non scendiamo a patti! I Savoia, Badoglio e soci stanno facendoci un tranello! Tu per loro sei un fuorilegge, un condannato a morte. Ascolta il mio consiglio: sta’ in guardia! Hanno tutti l’interesse a farti tacere per sempre! Tu dici: parlano i documenti. Ma loro sanno che i documenti si comperano, si rapinano, si distruggono. Un fatto è sicuro: se tu, se il carteggio, doveste essere un giorno in loro possesso, le tue ore di vita, nonché quelle del carteggio, sarebbero contate! Ben, ti supplico, non prendere decisioni senza consultarti con chi sai!». Lettera che dimostra, tra l’altro, la straordinaria capacità di preveggenza della giovane donna, perfettamente cosciente che il destino del suo grande amore (ma anche il suo) era strettamente legato al carteggio con Churchill. Ebbene, che cosa riporta, il libro Mondadori-ACS, alla data del 2 aprile ‘45? Una lettera di Mussolini in cui si legge: «Mentre la ruota continua a girare sempre più vorticosamente, tu continui a parlarmi di futilità. Sarebbe delittuoso se non fosse grottesco. Ad ogni modo, ti avverto che cambio donna ogni ora, dico ogni ora. Va bene? Va bene così? Ho parlato chiaro e ho detto che o si decide la partenza o non se ne fa nulla». Sicuramente il Duce scrisse questa lettera. Ma è impensabile che non abbia risposto, con una seconda lettera, alle esortazioni riguardanti il carteggio. Tanto più che, per lui e Claretta, Franz Spögler aveva la valenza di un browser di posta elettronica. A volte si scambiavano lettere anche due o tre volte al giorno.

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Veniamo al dunque. Gli esempi che ho appena citato, e che riportai già nel mio libro «La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?» (prima edizione Ares, 2002), provengono dal materiale che il 28 marzo 1973 il generale Karl Wolff, già comandante delle SS tedesche in Italia durante l’occupazione e la Guerra Civile, consegnò al giornalista e storico Ricciotti Lazzero che era andato a intervistarlo. Quel materiale consisteva in copie di lettere tra Mussolini e Claretta e registrazioni stenografiche di telefonate tra Mussolini e vari personaggi (anche di primo piano, come il generale Graziani e lo stesso Hitler) tra cui la stessa Petacci. Wolff disponeva delle registrazioni perché chiaramente era lui il destinatario delle intercettazioni telefoniche e delle lettere e perché aveva ordinato a Spögler e agli altri occasionali «fattorini» di fotografarle scrupolosamente, una per una, prima di consegnarle ai due destinatari. Del resto, non è una novità che i tedeschi la facessero da padroni durante i 18 mesi della RSI.

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Perché Wolff abbia consegnato quello scottante materiale a Ricciotti Lazzero non è difficile da spiegarsi. Per soldi. Wolff non faceva mai niente per niente. Uscito dal carcere militare dopo 12 anni di detenzione e rimasto senza lavoro, campava vendendo memoriali e documenti a giornalisti e storici. Ne so qualcosa. Nell’83 andai ad intervistarlo, per conto del settimanale «Gente», nella cittadina di Prien-am-Chiemsee, in Baviera, dove viveva, e dovetti portare con me quattro milioni di lire in marchi tedeschi: un milione per ognuno dei quattro articoli poi pubblicati. Piuttosto, non ho mai saputo perché Ricciotti Lazzero, uno degli storici più autorevoli e documentati della RSI, tenne nel cassetto quelle lettere e quelle registrazioni per ventuno anni. Finché si decise a pubblicarle nel suo libro, di successo, «Il sacco d’Italia», anch’esso Mondadori, nel 1994.

Ma riprendiamo la lettura dei documenti di cui non c’è traccia nelle lettere di Mussolini a Claretta pubblicate da Mondadori-ACS. In data 8 febbraio 1945, Mussolini scrive: «Clara mia, non impressionarti per i battibecchi fra Buffarini e il dr. Apollonio. Io non cederò. Il Capoccia sono io! Fa intendere questo anche a Spögler. Lui senz’altro riferirà all’ambasciatore, e questo a sua volta ai suoi. Se Kappler crede di potersi burlare di me si sbaglia di grosso. Anche se è un protetto di Wolff. Io sono fermamente deciso a fare piazza pulita. Oggi come oggi, non sono più costretto a tenere la bocca chiusa e non temo più nessuno. Lo si sappia! Dunque, stai tranquilla. Telefonami verso le 19». Nel libro Mondadori-ACS la lettera non c’è. Così come non c’è alcuna lettera che faccia riferimento ad una importantissima telefonata intercorsa tra i due all’indomani della Conferenza di Yalta (la conferenza fra russi, americani e inglesi che decretò la divisione in due dell’Europa creando la «cortina di ferro») nel febbraio 1945. Nel corso della telefonata (stenografata in italiano e riferita subito a Wolff), Mussolini sintetizzava a Claretta le osservazioni che aveva preparato «per il rapporto a Hitler che spedirò nei prossimi giorni»: «La situazione sta precipitando. La possibilità di successo di una presa di contatto allo scopo di un inizio di trattative è grande. Il momento è il migliore perché la conferenza di Yalta ha segnato un abisso tra le opinioni degli USA e quelle dell’URSS e perché Churchill ha riconosciuto il pericolo. La proposta annessione all’URSS della Polonia e dei Paesi baltici parla chiaro. L’Inghilterra è molto scossa e i miei rapporti con Churchill sono oggi ancora ottimali, tanto che escludo a priori difficoltà. Come desideri, ti mando in visione oppure ti porto una copia della lettera a Churchill». E’ davvero strano, ma molto strano, che nel libro Mondadori-ACS non vi sia traccia di tutto ciò.

Andiamo avanti. Il 22 marzo 1945, gli stenografi registrano la seguente telefonata tra il Duce e Claretta:
Mussolini: «Come promesso, ti ho telefonato subito, Il nostro colloquio è terminato».
Claretta: «Sono venuti tutti?».
M.: «Sì. Soltanto Pavolini è arrivato in ritardo».
C.: «Lo so. Due ore fa era ancora a Salò».
M.: «Sarebbe stato meglio se non fosse venuto affatto. E’ stato di nuovo l’unico ad opporsi».
C.: «Hai visto? Lo avevo detto».
M.: «Dal suo punto di vista è comprensibile. Se egli sapesse tutto, allora…».
C.: «Non è necessario».
M.: «Ma lui non può capire la situazione, non può collaborare. Perciò io devo rispettare il suo punto di vista di parte. Lui non conosce gli avvenimenti accaduti pochi giorni prima della nostra entrata in guerra. Non ne ho parlato con nessuno. E Churchill ancora meno. Bisognerà raccontare una buona volta questa storia. Chi dovrebbe parlarne oggi? In tutto la conoscono cinque persone».
C.: «Nel frattempo sono avvenute molte cose nuove…».
M.: «Lascia stare… Oggi stesso posso venire a Gardone. Potremo discuterne».
C.: «Ti aspetto».
Strepitosa telefonata con un chiaro riferimento agli accordi segreti del 1940 tra Mussolini e Churchill che determinarono la nostra entrata in guerra nel fatale 10 giugno 1940. Improbabile che non ve ne sia traccia nel frenetico e quotidiano invio di lettere all’amante. Nella lettera datata 22 marzo ‘45 riprodotta nel libro Mondadori-ACS, Mussolini si limita a replicare ad una evidente scenata di gelosia di Claretta: «Non ho visto la Ruspi [una delle amanti «storiche» di Mussolini, NdR] dal 16 dicembre a Milano. Chiunque affermi il contrario – fosse anche il Padreterno – non è che un miserabile mentitore. Niente fantasie in proposito. Tutto il resto del tuo dattilografato è un tessuto di supposizioni. Basta col manicomio! (…) Bisogna ormai riportare il nostro amore dal piano manicomiale in cui è scivolato, su un altro piano: quello di una volta». E di Churchill? Non un cenno.

A questo punto sorge spontanea una domanda: chi, come e quando ha «alleggerito» le carte Petacci consegnate all’Archivio di Stato? E, prima ancora, come finirono all’Archivio di Stato quelle carte (lettere e diari) che continuano a consentire ai due massimi editori italiani, Rizzoli e Mondadori, di sfornare un libro dietro l’altro sempre sul tema dei rapporti tra il Duce e la sua amante? Andiamo con ordine. 19 aprile 1945: Benito Mussolini, 61 anni, capo della RSI, lascia Villa Feltrinelli, a Gargnano, per raggiungere la Prefettura di Milano, dove si deciderà il da farsi: arrendersi o combattere fino all’ultimo uomo. A Claretta Petacci, 32 anni, che vive interminabili giornate in solitudine a Villa Mirabella, Gardone Riviera, all’interno del Vittoriale di D’Annunzio, raccomanda di restarsene al sicuro nella villa, guardata dai tedeschi. Ma Claretta non resiste e convince Franz Spögler a condurla a Milano, dove si riunisce ai genitori e alla sorella Myriam , in procinto di fuggire per raggiungere la Spagna. Essi sperano che Claretta abbia deciso di unirsi a loro, ma la giovane li disillude subito: «Sono venuta a Milano per stare vicina a lui!». Soltanto alla sorella Myriam rivela di avere affidato, prima di partire, ai coniugi Carlo e Caterina Cervis, ciò che ha di più prezioso al mondo: due scatoloni contenenti più di seicento lettere inviatele dal Duce nell’arco di dodici anni, nonché un diario che parte dal 1932 (anno in cui Claretta, allora ventunenne, conobbe Mussolini) e termina il giorno della sua partenza per Milano, appunto il 18 aprile 1945. I coniugi Cervis sono divenuti, dall’ottobre precedente (cioè dall’ottobre 1944, data del suo trasferimento da Villa Fiordaliso, teatro di una drammatica scenata fattale da Donna Rachele, a Villa Mirabella), i suoi migliori amici e i suoi confidenti. Villa Mirabella appartiene alla contessa Maria Gallese di Montenevoso, vedova di Gabriele D’Annunzio: Caterina Cervis è la dama di compagnia della contessa. I coniugi Cervis e Claretta vivono dunque sotto lo stesso tetto. Claretta passa le sue interminabili giornate, in attesa delle sempre più rare e frettolose visite di Mussolini, al tavolo di un enorme salone, vergando pagine e pagine di diario. In quelle pagine Claretta annota tutto ciò che il Duce le confida, per lettera o per telefono: non pettegolezzi (non è più il tempo), ma informazioni politiche, militari, diplomatiche. E le estreme speranze di salvezza. Quelle pagine sono, dunque, uno straordinario documento storico.

Pochi giorni dopo, i genitori e la sorella Myriam partono per raggiungere l’aeroporto militare di Ghedi (Brescia), dove li attende un aereo che li porterà a Barcellona. Nel dare loro l’ultimo abbraccio, Claretta fa scivolare una busta nella borsetta della sorella dicendole: «Ti prego, aprila soltanto quando sarai arrivata in Spagna». Myriam trattiene a stento i singhiozzi. Quella lettera contiene il testamento di Claretta. Eccone il testo integrale: «Non penarti per noi. Io seguo il mio destino che è il suo. Non lo abbandonerò mai, qualunque cosa avvenga. Non distruggerò con un gesto vile la suprema bellezza della mia offerta, e non rinuncerò ad aiutarlo, ad essere con lui sinché potrò. Tutte le mie carte sai dove sono. Conservale e rispettale. Tienile tu: te le affido, e tu, a tua volta, le affiderai a tuo figlio, se Iddio te ne darà uno, o a Benghino [«Benghino» è Benvenuto, il nipotino prediletto, figlio primogenito del fratello Marcello, che ha 6 anni e mezzo; il secondogenito, Ferdinando, ha appena 3 anni; NdR]. Tu capirai quale dei due sarà in grado di comprenderle. Tu che hai vissuto tutta la mia vita d’amore, tu che hai visto sin da piccolissima, tu che sei stata la piccola “paciera”, la “vivandiera”, la nostra “piccola idiota” dei giorni felici, tu sai tutto. Nessuno meglio di te può essere custode dei miei scritti. Troverai le sue lettere. Sono parte di me, sacro ricordo e indivisibile proprietà. Ti prego, qualunque cosa accada, fa sì che sia finalmente detta la verità. Non piangere per quel che ti dico. Non è pessimismo, né malinconia: è desiderio di sapermi sicura su ciò che mi è più caro. Tu sola puoi comprendermi».

19 aprile 1950. Quando, dopo cinque anni di esilio in Spagna, la giovane Myriam tornò in Italia e si presentò alla casa dei Cervis con in pugno la lettera della sorella, si sentì dire di essere stata preceduta dai carabinieri, che avevano sequestrato tutto. Chi li aveva avvertiti? Non si è mai saputo, sebbene si sia a lungo sospettato di un giornalista del «Corriere della Sera» che si sarebbe guadagnato le confidenze dei Cervis, compresa la notizia che le carte della Petacci erano sepolte nel giardino della villa. Ed era stato proprio scavando nel giardino che i carabinieri avevano trovato le due casse. Da quel momento, e fino alla morte, avvenuta nel 1991, Myriam Petacci non cessò un istante di rivendicare la proprietà delle carte. Ma tutti i suoi sforzi, le sue battaglie legali, le sue istanze ai vari ministeri furono vani. Così come sono stati vani per decenni i tentativi posti in atto dall’unico erede vivente di Claretta, il nipote Ferdinando, figlio del fratello di Clara e Myriam, Marcello, nonostante Ferdinando abbia avuto il padre trucidato a Dongo, mentre suo fratello, Benvenuto, detto «Benghino», vedendo il papà massacrato sotto i suoi occhi, uscì di senno e morì in giovanissima età. Anche rispettando il cinquantennale «segreto di Stato», Ferdinando avrebbe avuto diritto ad entrare in possesso delle carte della zia a partire dal 1995. Invece ha dovuto attendere la scadenza della secretazione settantennale riguardante le «situazioni puramente private delle persone» per avere voce in capitolo sulla consultazione, e la pubblicazione, dei diari di Claretta, che difatti stanno venendo alla luce anno per anno (nel 2009 quelli del ’39, nel 2010 quelli del ’40, nel 2011 quelli del ’41 e così via).

A questo punto, può essere di un certo interesse storico ricostruire i fatti che mi coinvolsero nella vicenda dei diari di Claretta Petacci. Accadde nel 1995, data di scadenza del segreto di Stato apposto ai documenti dell’amante del Duce dopo che Emilio Re, direttore dell’Archivio di Stato cui l’incartamento era stato consegnato dai carabinieri che lo avevano sequestrato ai Cervis, aveva definito la Petacci «non solamente la favorita del dittatore, ma anche la fiduciaria, qualche volta l’incitatrice, se non la consigliera». In quell’anno, unitamente al compianto Alessandro Zanella, storico e autore del più importante libro sulla RSI, «L’ora di Dongo» (Rusconi, 1993), chiesi di potere esaminare le carte Petacci. Ma l’Archivio me ne impedì la consultazione, accampando un ulteriore periodo di vent’anni per proteggere la privacy delle persone coinvolte, così come previsto – mi fu precisato – dal 2° comma del DPR 1409/63. Allora mi rivolsi direttamente al ministro degli Interni dell’epoca, Giorgio Napolitano (dal cui ministero dipendono gli Archivi), specificando che mi sarei accontentato di sfogliare, sotto il vigile occhio dei funzionari dell’Archivio, soltanto le pagine dei diari comprese tra gli ultimi mesi del 1944 e il gennaio del 1945. Ciò che m’interessava non era la «privacy», non erano le lenzuola di Villa Fiordaliso né quelle di Villa Mirabella, ma sapere che cosa aveva scritto Claretta nei giorni corrispondenti alle date delle telefonate tra lei e il Duce riguardanti i contatti con Churchill. Da tempo si sapeva che Claretta, durante le sue lunghe notti insonni a villa Fiordaliso, scriveva moltissimo. Infatti i suoi diari hanno una mole mostruosa, ben 15 mila pagine: mille per ogni diario, come confidava alla sorella Myriam.

Napolitano mi fece rispondere dal suo sottosegretario Abate, il quale, firmandosi «pel Ministro» (sic), mi precisò che i funzionari dell’Archivio di Stato avevano provveduto a consultare i diari di Claretta alle date da me e da Zanella indicate nella richiesta, e non avevano trovato nulla di ciò che ci interessava. Confesso che, sul momento, rimasi perplesso. Ma ora che il tesoro cartaceo della povera Petacci sta tumultuosamente venendo alla luce, mi rendo conto che il sottosegretario Abate, «pel ministro Napolitano», diceva il vero. Quei diari, così come le lettere di Benito a Claretta, erano sicuramente stati «ripuliti» molto, ma molto tempo prima. Ossia, subito dopo il loro ritrovamento nelle due casse seppellite nel giardino di villa Mirabella. Appare a questo punto difficile porre in dubbio che già nel 1950, quando i documenti vennero scoperti dai carabinieri sotterrati in due bauli nel giardino della villa dei Cervis, ai quali Claretta li aveva affidati prima di lasciare Gardone, «qualcuno», magari «incaricato» dal vincitore della Seconda guerra mondiale, si sia premurato di purgarli delle parti per lui più compromettenti. D’altra parte, questo è stato il destino subìto da tutte le carte che potevano provare qualcosa di imbarazzante per gli inglesi. Per esempio, le copie fotografiche del carteggio con Churchill che Mussolini aveva consegnato al fidato ambasciatore giapponese Shinrokuro Hidaka. Quando, trent’anni fa, gliene feci chiedere conto da un amico giapponese, lui rispose sibillino di avere consegnato tutto al suo governo. Che naturalmente oppose anch’esso il segreto di Stato. Ugualmente sparite nel nulla le copie fotografiche che Mussolini consegnava al suo ministro di fiducia Carlo Alberto Biggini. Del resto, lo storico e giurista professor Ubaldo Giuliani-Balestrino, nel suo recente saggio dal titolo «Il carteggio Mussolini-Churchill alla luce del processo Guareschi» (Settimo Sigillo, Roma, 2010) ha ampiamente dimostrato come il primo ministro britannico fosse ben presente sulla scena italiana ancora nei primi Anni Cinquanta, allorché si incaricò di fornire un sostanzioso e decisivo appoggio al capo del governo italiano Alcide De Gasperi, che aveva querelato il grande giornalista Giovannino Guareschi, direttore del «Candido», per averlo inguaiato proprio con le carte contenute nel dossier De Toma, una delle tante copie del carteggio Mussolini-Churchill che il Duce aveva voluto preparare in vista della resa dei conti.

Da tempo immemorabile, a chi mi chiede se esistono le prove dei contatti tra Mussolini e Churchill, rispondo che non bisogna certo pensare a lettere dirette che iniziavano con «Caro Winston» o «Caro Benito». Ma dei rapporti tramite emissari nessuno può più dubitare. Pietro Carradori, l’autista del Duce, mi raccontò nel ‘94 di averlo trasportato due volte la notte, di nascosto, da Salò a Ponte Tresa, al confine con la Svizzera, per incontrare gli inviati di Churchill. E anche i partigiani che parteciparono a quelle vicende, ormai anziani, negli anni Novanta iniziarono ad incrinare il muro di omertà alzato per mezzo secolo: Urbano Lazzaro, il famoso comandante «Bill» che aveva catturato Mussolini sulla piazza di Dongo, scrisse due libri di grande importanza storica. E peccato che l’Istituto Storico della Resistenza di Pavia non mi abbia consentito, quando ne feci richiesta, di ascoltare la cassetta con la testimonianza che aveva lasciato, prima di morire, uno dei partigiani dell’Oltrepò pavese membri del plotone d’esecuzione di Dongo.

Tornando al libro Mondadori-ACS, sono da segnalare i commenti di due validi storici come Elena Aga-Rossi e Giuseppe Parlato. Quest’ultimo affronta la tematica del carteggio Mussolini-Churchill e scrive in proposito: «Non è questa evidentemente la sede per esprimere un giudizio sull’esistenza del carteggio, ma soltanto per evidenziare che Mussolini fece affidamento su tali documenti per una soluzione negoziata della crisi del Fascismo». Quanto a Elena Aga-Rossi, nel suo intervento si legge: «Le lettere alla Petacci dell’ultimo periodo mostrano che Mussolini era convinto di avere ancora delle opzioni aperte, anche se tali opzioni non sono mai chiarite». E perché «non sono mai chiarite»? Perché dalla collezione epistolare accuratamente custodita da Claretta Petacci furono probabilmente sottratte tutte le lettere più scottanti, relative ai progetti dell’ultimo Mussolini.

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Storia in Rete n. 77

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