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C’è vita su Marte? Storia delle illusioni aliene

Una storia della Xenoarcheologia che voglia essere minimamente credibile non può trascurare l’infinita diatriba sui canali marziani, tra i primi artefatti extraseleniti mai segnalati. Esistono infinite pubblicazioni e ricostruzioni al riguardo di questo episodio assolutamente centrale per la Storia della Astronomia, della Scienza e della Cultura, pertanto ci limiteremo solo a qualche breve cenno, sottolineando gli aspetti più importanti per la nostra fantomatica disciplina.

da Torinoscienza.it 

La celebre allucinazione collettiva ha inizio ufficiale con la grande opposizione del 1877, in un panorama che come abbiamo visto era stato già ampiamente fertilizzato da Herschel, Schroeter, Gruithuisen e Richard Locke.Il primo a parlare di “canali” (sebbene ci sia ancora discussione sul ruolo ambiguo della traduzione inglese di questo termine nella creazione e diffusione del “caso”) è il grande astronomo italiano Giovanni Schiaparelli, all’epoca direttore dell’Osservatorio Astronomico di Brera , che riprende il termine da un articolo di Padre Secchi.

Nonostante la cautela del personaggio (spezzata in più di un’occasione da magistrali e rivelatori articoli divulgativi) le osservazioni incriminate infiammano la fantasia della comunità astronomica prima ancora che quella del pubblico. In un lento ma inesorabile crescendo le conferme di una intera rete di scure “striature” superficiali su Marte si moltiplicano di opposizione in opposizione (ogni due anni) tra gli osservatori, fino a comprendere relazioni dettagliate di apparenti fenomeni di “geminazione”, cioè di temporaneo raddoppiamento dei canali.

L’inferenza che conduce a una fitta rete di opere d’ingegneria atte a controllare e razionalizzare la scarsa quantità d’acqua marziana è praticamente irresistibile, e se ne fanno portatori presso il grande pubblico soprattutto i due grandi divulgatori dell’epoca: Proctor in Inghilterra (sebbene con molta cautela) e Flammarion in Francia (con entusiasmo sanguigno).

Non mancano le polemiche e le resistenze, ma in una prima fase sono relativamente deboli, grazie anche al prestigio dello scienziato di Brera.

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Sul finire del secolo entra in scena Percival Lowell, controversa figura di ricco milionario con la passione dell’astronomia, e finisce quasi col monopolizzare il dibattito. Con energia infinita e carisma persuasivo l’americano si dedica anima e corpo alla causa dei canali, senza lesinare fondi, risorse, telescopi ed assistenti.

In sintesi la sua idea, apparentemente confermata dalle osservazioni visuali e successivamente perfino da quelle fotografiche, è un pout pourri di speculazioni già timidamente avanzate qua e là, combinate in una grandiosa teoria autoconsistente: i canali sono in realtà tracce della vegetazione che circonda i corsi d’acqua, realizzati da una razza intelligente per irrigare un pianeta arido e dall’atmosfera sottilissima.

L’acqua proviene dalle calotte polari che stagionalmente si sciolgono e producono grandi flussi umidi, e in corrispondenza di questo aumento della portata dei canali la vegetazione si addensa, mentre nella stagione secca i canali tendono a impallidire per il diradarsi delle zone verdi.

Le regioni scure nei nodi della “rete” non sarebbero che grandi oasi fertilizzate periodicamente dalla piena, e non bacini acquatici come postulato da alcuni.

Fin qui l’interpretazione dei dati osservativi, ma nel suo ponderoso ed epocale Mars e nelle pubblicazioni seguenti Lowell si lascia trascinare dalla passione e ipotizza marziani cinquanta volte più efficienti fisicamente dei terrestri, estremamente intelligenti ed inventivi.

E’ fondamentale notare che tutta la catena deduttiva poggia sul giudizio di artificialità dei canali, a parere di Lowell e dei suoi seguaci assolutamente innegabile: la forma geometrica e regolare della rete ha qui lo stesso valore che per Gruithuisen avevano l’inclinazione delle mura e la posizione sulla superficie lunare del Wallwerk.

Anche in questo caso la natura di artefatto deriva dall’esclusione logica dell’alternativa, perché nessun astronomo era stato fino ad allora in grado di spiegare con puro ragionamento geologico una fenomenologia così estesa, simmetrica e cangiante.

A dire il vero fin dalle iniziali descrizioni di Schiaparelli si erano levate isolate voci di dissenso basate sulla teoria dell’illusione ottica, ma il peso dei campioni dei canali in campo aveva polverizzato qualunque critica e scetticismo degli addetti ai lavori. Segno della spasmodica e inconscia necessità per la società postvittoriana di un’alternativa aliena al sistema colonialistico sulle soglie della crisi? Sogno di mutamento sociale parallelo alle emergenti teorie marxiste?

E’ un fatto, ad esempio, che le deduzioni di Lowell e Schiaparelli (nelle sue rare esternazioni non ambigue) partivano dalle stesse evidenze sperimentali ma erano profondamente divergenti e chiaramente influenzate dalle rispettive ideologie politiche di appartenenza. L’americano, che incarnava il modello del self-made-man volitivo e intriso della mentalità del darwinismo sociale, estrapolava dalla rete di canali una blanda società oligarchica, in cui “solo i più adatti erano sopravvissuti”. Schiaparelli, da buon socialista, ipotizzava invece “una comunità di interessi e di universale solidarietà tra i cittadini (…), un falansterio che può essere considerato il paradiso delle società”.

Lentamente, a partire dall’ultima grande opposizione del secolo (1894), le voci critiche assumono sempre maggiore consistenza. Vincenzo Cerulli, Edward Maunder, William Campbell e Eugene Antoniadi contribuiscono a smontare pezzo per pezzo la teoria dei canali, mostrando che l’inganno ottico deriva dalla naturale tendenza della vista umana a unire in linee continue una moltitudine di sottili dettagli quasi puntiformi, soprattutto in condizioni estreme di illuminazione e risoluzione quali quelle dell’osservazione planetaria.

L’assenza spettroscopica di vapor d’acqua nell’atmosfera marziana suggerisce inoltre uno scenario totalmente arido, lunare, in una metamorfosi che ricorda quello delle Cronache Marziane di Ray Bradbury, dove a una misteriosa civiltà attiva e intelligente subentra un paesaggio di diafane rovine, ricordi polverosi e solitudine desertica. Esattamente lo stesso percorso che Marte seguirà tra l’inizio del secolo e l’atterraggio del primo Viking, anche se certi temi riemergeranno a sorpresa (canyon una volta ricchi d’acqua, vita da cercare in microfossili invece che in giganteschi ingegneri umanoidi).

Non che questo fermi necessariamente il coraggioso cammino della Xenoarcheologia: è sufficiente dare più risalto alla seconda parte del termine per continuare a sognare. Si tratterà da questo momento di spostare nel lontano passato le civiltà aliene agognate, e di dedicarsi all’archeologia imitandone le metodologie terrestri.

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Inserito su www.storiainrete.com il 6 agosto 2012

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