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C’era una volta la Cortina di ferro. Le “democrazie popolari” contro i popoli

di Marco Valle da destra.it del 10 dicembre 2016

Per qualsiasi ragazzo o ragazza nato/a dopo gli Ottanta, il comunismo è tutt’al più un pezzo del passato, un titolo giornalistico, un documentario noioso, la sigla di qualche partituncolo. Per i meno svegli (o più scemi…) il comunismo può trasformarsi in una chimera dai contorni indefiniti, in un’eresia da salotto, in un modo per distinguersi e farsi notare in società. Per ovvi motivi anagrafici nessuno di loro ha visto e conosciuto i paesi comunisti, i regimi comunisti, il comunismo reale. Una grande fortuna e, al tempo stesso, una piccola sfortuna. Attraversare, conoscere, capire l’Europa orientale al tempo della “cortina di ferro”, del filo spinato, delle stelle rosse, per molti di noi cinquantenni e più, fu un esercizio positivo che ci vaccinò per sempre da tentazioni e abbagli totalitari. D’ogni colore.

Al tempo superare la frontiera tra Ovest ed Est significava entrare in un altro mondo. Un mondo popolato da gente malvestita ti osservava con sguardi sghembi, un mondo illuminato da neon sporchi, un mondo dai pavimenti in linoleum color nocciola, un mondo di negozi vuoti e architetture squallide. Era il comunismo realizzato. Un mondo triste, terribilmente triste, dove le ragazze bramavano per calze in nylon e i ragazzi sognavano i jeans. Il risultato? Mercato nero, contrabbando, corruzione e peggio. Sul fondo disincanto e paura, tanta paura. A Praga, a Budapest, a Bucarest, a Sofia, a Varsavia, a Berlino est. Allora solo frammenti d’Europa alla deriva.

Come fu possibile? Lo spiega con eleganza e profondità Anne Applebaum, ricercatrice polacco-americana, nel suo denso saggio La Cortina di Ferro, la disfatta dell’Europa dell’Est. Un libro importante che spiega l’instaurazione delle “democrazie popolari” nel secondo dopoguerra. Un processo storico complesso (quanto fallimentare) che seguì la disfatta del Reich hitleriano. Nel 1945, chiusa a duro prezzo la partita con la Germania nazista, Stalin decise di estendere quanto possibile la sfera d’influenza sovietica; forzando gli accordi presi a Yalta con gli anglo-americani, il dittatore georgiano decise che ovunque fosse giunta l’Armata rossa, o le forze ad essa collegate, il bottino spettava di diritto all’Unione Sovietica: in pratica si trattava di Polonia, Ungheria, Cecoslavacchia, Germania orientale, Romania, Bulgaria, Albania, Jugoslavia. Metà del continente.

Il presidente americano Franklin D. Roosevelt, ormai moribondo, non ebbe la forza o il coraggio di opporsi a Stalin. L’unica cosa che lo tormentava negli ultimi giorni della sua controversa esistenza era passare alla storia come un “grande”. Le promesse fatte ai polacchi e ai cechi anticomunisti svanirono nel nulla. Fu il pragmatico Churchill ha comprendere l’entità della partita; all’indomani della vittoria Winston ordinò ai suoi generali di studiare un attacco a sorpresa contro i russi, usando come ferro di lancia i tedeschi sconfitti. Un azzardo che avrebbe cambiato la storia del mondo. Ma, nel giugno ’45, i britannici, sfiniti da anni di guerra, preferirono mandarlo a casa e sostituirlo con il triste laburista Attle. Alla fine gli alleati riuscirono con fatica a conservare in Occidente solo Berlino ovest, la Grecia, l’Austria e Trieste. Sul resto dell’Europa, da Stettino all’Adriatico calò la “cortina di ferro”. Il potere sovietico.

Cosa successe? Tante cose. Nel suo lavoro, attualizzando la lezione di François Furet, la Applebaum focalizza, attraverso interviste e rari materiali d’archivio, i meccanismi e le diversi fasi del “potere rosso” in Polonia, Ungheria e Germania est. Tra il 1945 e il ’48, i sovietici si resero conto della precarietà dei loro referenti locali — puntualmente sconfitti ad ogni elezione dai partiti “borghesi”— e decisero di stringere le viti con una serie di colpi di stato più o meno camuffati che il “mondo libero” incassò senza quasi reagire. Un’accelerazione brutale che obbligò i nuovi regimi ad instaurare una politica del terrore contro ogni opposizione, vera o presunta, e a rinvigorire i partiti con energie nuove. Da qui l’apertura di campi di concentramento (o la riapertura di quelli nazisti di Buchenwald e Auschwitz), la formazione di polizie politiche, le persecuzioni contro ogni forma associazionistica autonoma e, le chiese, in primis, quella cattolica. Al tempo stesso, i partiti comunisti divennero per molti un ascensore sociale e, come in Germania orientale, l’opportunità per parte degli ex quadri hitleriani di riciclarsi.

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Assordati dalla propaganda e spaventati dalla repressione, milioni di europei si rassegnarono, cercando semplicemente di sopravvivere in società ormai disarticolate, spente, proletarizzate, sempre più simili all’incubo tratteggiato da George Orwell in 1984. Ma inni, cortei, strampalati piani quinquennali non impedirono al sistema di autodivorarsi. Con l’uscita di Tito, il piccolo Stalin jugoslavo, dall’orbita sovietica e le crescenti difficoltà economiche l’intera nomenklatura venne scossa e percossa.
Nella sua lucida follia, il padrone del Cremlino decise di purgare severamente i “partiti fratelli”: furono i processi farsa di Praga, Varsavia e Budapest, una caccia alle streghe che eliminò interi gruppi dirigenti comunisti. Per i sovietici gli imputati, colpevoli d’ogni nefandezza — spionaggio, tradimento, sabotaggio, sionismo — furono l’utile capro espiatorio di una situazione sempre più fallimentare. Ma non servì a molto. A Berlino nel 1953, poi in Polonia e infine, nel 1956, a Budapest i sudditi decisero di ribellarsi. Di farla finita con il comunismo e i suoi dignitari. Per Stalin e i suoi successori — Krusciov su tutti — una pretesa inaccettabile. Ogni volta i sovietici, nel silenzio imbarazzato dell’Occidente, intervennero con spietatezza estrema per salvare le “democrazie popolari” dall’odio dei popoli. “Vittorie” sanguinose e inutili. Trentatrè anni dopo i moti ungheresi il muro di Berlino andò in frantumi, seppellendo per sempre la cortina di ferro e i suoi ottusi guardiani.
Anne Applebaum
LA CORTINA DI FERRO
La disfatta dell’Europa dell’est 1944-1956
Mondadori, Milano 2016
Pp. 638. Euro 32,00

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