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Italia coloniale

«C’est la guerre!» – «Pas la guerre, c’est l’Angleterre!». Soprusi inglesi sui prigionieri di guerra italiani

Agedabia, Libia, 6 Febbraio 1941 – La X Armata del Regio Esercito agli ordini del Generale Giuseppe Tellera cade definitivamente sotto il soverchiante fuoco inglese. Tellera doveva gestire il ripiegamento in direzione di Agedabia e del golfo della Sirte lungo la via Balbia. Le forze corazzate inglesi avevano però bloccato il passaggio a 39 km. Lungo la strada costiera si era così venuta a creare una caotica coda di mezzi militari e civili, facile preda degli attacchi dei mezzi inglesi. Tellera, per tentare di forzare il blocco, si mise personalmente al comando di gruppi di carri M13 ancora funzionanti. Uno dei carri su cui si trovava Tellera fu colpito, e il generale venne gravemente ferito a un polmone. Morirà il giorno dopo. La sua morte segnò anche la fine della X Armata, e la resa italiana, in quella che fu poi conosciuta come battaglia di Beda Fomm. Tutti vennero fatti prigionieri.

Ecco la testimonianza del Tenente Francesco Donati, Cappellano della X Armata:
«Io rimasi con i feriti, di cui quelli non si curarono affatto, sebbene fossero quasi tutti molto gravi e bisognevoli di medicazione almeno sommaria. Alcune ore dopo, presentandosi un ufficiale, lo supplicai di affrettare l’invio di auto-ambulanze, di medicinali e di bende. Egli s’affacciò sulla soglia della casa, ma non entrò per non imbrattarsi di sangue; sembrò però convincersi dell’urgenza, assicurò nel modo più cortese e se ne andò con la sua macchina. Non l’ho più rivisto […] Il ritardo delle fasciature e dei medicinali fu letale per molti che morirono dissanguati durante la notte. Solo al mattino successivo vennero inviati cinque nostri autocarri pesanti, senza un infermiere, senza un medico, senza una benda. I feriti vi vennero gettati sopra uno su l’altro senza cura e alla rinfusa; i morti li lasciammo sul cortile insepolti; e partimmo. Eravamo tutti fermamente convinti di essere diretti a qualche ospedale o sezione di sanità. Lascio immaginare la nostra delusione quando ci accorgemmo che puntavamo verso il deserto, ove tosto raggiungemmo i nostri compagni avviati a piedi la sera precedente e altri numerosissimi catturati presso Zuetina […]
Il sole nel deserto accresceva la difficoltà della marcia. La fame non tardò a farsi sentire e i più deboli, i più provati, i più anziani cominciarono a dar segni di stanchezza. Ma quello che presto addivenne il martirio più feroce, l’incubo, lo spasimo, il tormento, fu la sete. […]
Approfittando di una breve sosta, mi avvicinai al sergente maggiore della Royal Police, la massima autorità che io abbia potuto vedere in tutti e tre i giorni della nostra terribile odissea, e cercai di commuoverlo a vantaggio di noi tutti e specialmente dei feriti. Sembrò infatti rendersi conto dell’estrema gravità del momento e mi assicurò che fra «cinque minuti» sarebbe giunta acqua per tutti. I «cinque minuti» addivennero ore; calò il sole, giunse la sera; ma l’acqua non si vide. […]
Che orrore, Dio mio! Quanta pietà e quanta pena nel cuore! Quale odio feroce nell’animo contro gl’infami che, seduti attorno alle pentole ove bolliva il tè gorgogliando, mangiavano deridendo alla nostra sventura e gettandoci tra insulti e sarcasmi le lattine vuote delle loro carni in conserva! Già due dei miei feriti erano morti per la sete ed il dissanguamento. lo li calai giù dall’autocarro e li composi sulla sabbia, facendo badile delle mani per ricoprirli. Ma quello non era che il principio! Al mattino seguente altri tre non si svegliarono e furono adagiati a fianco ai sepolti della sera.
[…] per i più era impossibile camminare. La stanchezza, in organismi che da tre giorni non toccavano cibo, ben presto divenne sfinimento: le gambe si rifiutavano di sostenere il peso del corpo e stentavano a staccarsi dalla sabbia. Eppure la fame e la stanchezza sarebbero state ancora superabili, se non si fosse col caldo acuita la sete. Sulle labbra si allungavano sempre più i solchi delle screpolature che ora non davano più sangue, mentre la lingua ingrossata e secca aderiva al palato, tanto che non potevamo più parlare. […]
Sul mezzogiorno si sostò per consentire ai nostri carnefici di consumare il loro rancio. Approfittando dell’attesa, taluni si stendevano per terra liberando dalle scarpe — quelli che le avevano ancora — i piedi gonfi e piagati; altri, sospinti dalla fame, vagavano qua e là cercando radici di sterpi o qualche filo di erba, che mangiavano. Alcuni, cogliendo un attimo di rallentata vigilanza, strisciavano sotto gli autocarri e bevvero l’acqua putrida, giallastra e fumante dei radiatori. Al momento di riprendere il cammino, tutti i radiatori erano vuoti; ma per i radiatori gli inglesi l’acqua la trovarono.
Al segno dato dalle mitragliere della blindo, la triste carovana si mosse. Alcuni, non potendone più, preferirono la morte, e furono freddati con un cinismo ed una ferocia da iena. Un soldato che passando s’era avvicinato a quei cadaveri fra cui forse aveva riconosciuto un parente, un amico o comunque un italiano, fu colpito nell’atto pietoso da una raffica di mitraglia e cadde […]
Di fronte a tali orrori, io non ci vidi più, e avvicinato ancora una volta il sergente maggiore che permetteva un trattamento così apertamente in contrasto con ogni legge di guerra e di umanità, protestai sdegnosamente contro di lui, facendogli capire il disonore e l’onta di cui si copriva il suo «civilissimo» paese. Egli mi guardò meravigliato, quasi non comprendesse la fondatezza della mia protesta e mi disse in orribile francese: — «C’est la guerre!» — Cui io, sempre seccatissimo: — «Pas la guerre» — soggiunsi — «c’est l’Angleterre!» — Non so se quel miserabile abbia compreso tutto il fiele e tutta la tremenda verità racchiusa in questa mia risposta, nè so cosa avrebbe fatto di me se non fosse sopraggiunto un sergente che, conosciuta attraverso la divisa o la croce, la mia qualifica di Cappellano militare, cercò calmarmi ripetendomi che fra cinque minuti sarebbe stata distribuita l’acqua per tutti; e si portò via il sergente maggiore che mi guardava con occhio pieno di risentimento e di minaccia. L’acqua comunque non giunse neppure la sera, e molto meno qualche cosa da mangiare.
Fu allora che temetti anch’io di impazzire. Quando, sul calar del giorno, distesi sulla terra i cadaveri di altri sei feriti deceduti lungo il tragitto, non potevo pronunziare neppure le preci rituali delle esequie; caddi svenuto sulle salme che non potevo più benedire, nè ricoprire.
Ma Dio ebbe pietà delle sue creature, mandandoci Lui l’acqua che gli uomini ci negavano. Verso la mezzanotte un soave senso di frescura mi richiamò ai sensi: pioveva dirottamente. La pioggia aveva formato sul terreno delle piccole macchie che la Luna coloriva d’argento e nelle quali noi posammo avidamente le nostre labbra di fuoco. Le giacche, i pastrani, le coperte, i caschi, i teloni degli autocarri: tutto fu approntato per raccogliere acqua e fango e riempirne le borracce. Quella pioggia, quel fango, che furono poi per molti causa di polmoniti e di coliti dolorosissime, ci salvarono da un nemico che certamente il giorno appresso avrebbe finito coll’ucciderci; e sebbene bagnati e nudi, nel freddo intenso della notte ventosa che noi dovemmo passare seduti o sdraiati all’adiaccio, ne ringraziammo Dio con sentimento di infinita riconoscenza.
All’alba del del giorno 9 ci rimettemmo in cammino […]
Verso il tramonto, arrivammo ad una casa cantoniera situata sulla litoranea, a 19 chilometri da Sidi el Magrum, improvvisata ad infermeria. Quivi trovammo finalmente un po’ d’acqua, un chirurgo inglese, qualche attrezzo, ma niente fasciature e pochissimi medicinali. Prima dunque di poter procedere ad una medicazione, si dovette ottenere un permesso per recarci a qualche chilometro dalla casa a prendere medicinali e cofani sanitari in alcune auto-ambulanze della Croce Rossa, rimaste bloccate sulla strada al mattino dell’infausto 6 febbraio.
Accanto all’infermeria, un centinaio di soldati e alcuni ufficiali, stremati dagli stenti, giacevano al suolo, supplicando: pane, pane! Un piccolo soldato umbro, di S. Maria degli Angeli, che s’era avvicinato a quegli infelici per versare sulle loro labbra alcune goccie di cognac, scoperto fra i rottami di un nostro autocarro rovesciato lì appresso, ebbe una pallottola all’addome […] Morì due giorni dopo all’ospedale di Bengasi e la sua salma fu da me pietosamente deposta nel grande cimitero accanto alle spoglie dell’eroico Generale Tellera.
Un’altra cosa che mi ha profondamente colpito e che io non posso omettere in questa sommaria rassegna dei miei ricordi, è lo spirito di rapina delle soldataglie inglesi. La brutalità del nemico in questo campo, sia col trattamento insolente verso gli ufficiali, sia con le angherie usate nel perquisire tutti, anche i più laceri soldati, ed i feriti, ed i moribondi, ed i morti, per strappar loro con violenza ogni oggetto di valore, ha superato di gran lunga la barbarie delle razzie abissine. Ogni soldato si credeva in diritto di frugare e rovistare nelle tasche degli inermi e di prenderne ciò che voleva […]
per questi volgarissimi ladri un ambito bottino di guerra furono gli anelli, le fedi matrimoniali, gli orologi da polso, le penne stilografiche e i denari […]
Ad un ferito che aveva un brillante ed una fede matrimoniale, essendosi tentato invano di estrarre gli anelli perchè il dito tumefatto si era gonfiato, fu reciso il dito con una tenaglia. Il ferito già agonizzante morì nello strazio. Era un ufficiale carrista, ed è sepolto a sud-ovest di El Magrum.
Un capitano di artiglieria cui erano stati amputati il braccio destro e la gamba, durante il trasporto verso Bengasi, nell’interno dell’autoambulanza fu aggredito da uno della scorta, accortosi di un orologio d’oro che il ferito aveva al polso. Invano l’infelice si oppose, supplicando che gli venisse risparmiato quel ricordo. L’aggressore si gettò come una belva su di lui e cominciò a colpire di pugni e calci i monconi sanguinanti del braccio e della gamba. lo non ci vidi più. Afferrai l’inglese per il collo, minacciando di strangolarlo. E lo avrei certamente fatto, se non avessi visto a pochi centimetri dal mio capo la canna di una pistola che l’autista, bloccata la macchina e spalancato lo sportello, aveva avuto modo di puntare contro di me. Mi si fece capire che avrebbero ammazzato me e tutti i feriti. Compresi allora che era inutile e dannosa ogni resistenza, e mi raccolsi in un angolo coprendomi la faccia per non vedere. Il capitano seguitò ancora a difendere il suo orologio; finchè nella lotta impari, cadde dal lettino e rimase privo di sensi nel piccolo corridoio dell’autoambulanza. Con infinita cautela e grande stenti riposi quel corpo irrigidito sul lettino insanguinato, mentre l’inglese si fermava attorno al polso la fibbia del piccolo orologio d’oro, ammirando soddisfatto il suo glorioso trofeo.
Giunti in Bengasi, denunciai i fatti alle autorità inglesi, ma l’orologio non fu più potuto riavere; e credo che proprio per una grazia speciale io non venni fucilato per aggressione e rivolta!»

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