HomeStoria militareCinque luoghi comuni su Grande Guerra e Regio Esercito

Cinque luoghi comuni su Grande Guerra e Regio Esercito

Ufficiali ottusi e incompetenti che mandavano inutilmente a morire i loro uomini; diserzioni di massa e fucilazioni spietate; Caporetto archetipo universale della disfatta … Sono diversi i luoghi comuni sulla Grande Guerra oggi sedimentati nella coscienza collettiva. Tuttavia, ad un’analisi attenta dei dati e dei documenti, emerge una realtà più complessa, in certi casi del tutto opposta e, di sicuro, meno pessimisticamente oleografica. In pochi sanno, ad esempio, che l’Esercito italiano, fu l’unico, tra quelli dell’Intesa, a rimanere costantemente all’offensiva fin dall’inizio della guerra. Ancor meno noto, il fatto che produsse le maggiori conquiste territoriali, così come si ignora che i Caduti italiani furono meno di quelli francesi, russi, inglesi, tedeschi, austro-ungheresi e ottomani.

di Andrea Cionci da LaStampa.it del 22 maggio 2017
Le origini di una vulgata storica
«Il cinema è l’arma più forte» recitava un motto del Ventennio, scolpito a lettere cubitali sulla facciata degli studi di Cinecittà. Paradossale è notare che proprio il cinema, negli anni ’70, avrebbe fatto a brandelli la visione eroica di una delle pagine di storia italiana cavalcata con più entusiasmo dalla propaganda fascista: la Prima Guerra mondiale, la guerra vinta.

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Un film su tutti: «Uomini contro» (1970) del regista iscritto al PCI e dichiaratamente antimilitarista Francesco Rosi che, a sua volta, riportò su pellicola il romanzo «Un anno sull’altipiano» di Emilio Lussu. Questo scrittore era un fiero antifascista che aveva combattuto valorosamente nella bgt. Sassari durante la Grande Guerra, fino a raggiungere il grado di capitano.
Fondatore del Partito Sardo d’Azione (socialismo liberale) durante il Ventennio, fu mandato al confino a Lipari, da dove evase nel 1929. Nel 1936 prese parte alla Guerra civile spagnola, nel fronte antifranchista e, dopo l’8 settembre ’43, passò nelle file della Resistenza. Fu proprio nel ’36, al ritorno dalla Spagna, che – dietro invito del socialista Gaetano Salvemini – scrisse il suo libro più famoso. Non un diario di guerra scritto a caldo, dunque, ma un romanzo steso ben 18 anni dopo la fine del conflitto. Per stessa ammissione dell’autore, era un testamento politico scritto in aspra contestazione della guerra d’Etiopia voluta dal regime fascista.
Ecco, quindi, spiegate le numerose incongruenze nel testo che gli storici Paolo Pozzato e Giovanni Nicolli hanno evidenziato nel loro volume «Mito e antimito». «Una delle più evidenti trasformazioni ideologiche di Lussu – spiega Pozzato – si trova all’interno dell’episodio in cui un generale fa affacciare, al posto suo, ad una pericolosa feritoia, un soldato che viene immediatamente abbattuto dal nemico. L’episodio – così come viene narrato – non è mai accaduto, dato che, come risulta dai dati incrociati dei memoriali della Sassari, quella feritoia fu chiusa non appena si comprese che era pericolosa».
Fucilazione dei disertori nel film «Uomini contro»

Facendo salvo il loro valore artistico, «Un anno sull’altipiano» e la sua trasposizione cinematografica «Uomini contro» restituiscono, in buona parte, un “condensato di atrocità” permeato da una visione emotiva e dai chiari intenti propagandistici, piuttosto che un panorama (anche statisticamente) obiettivo di ciò che fu la Grande Guerra per i soldati italiani.

La questione dei disertori
Ad esempio, se, nel film, le scene relative ai disertori fucilati commuovono chiunque, è anche necessario sottolineare che le condanne emesse dai tribunali militari, stando ai numeri ufficiali, furono appena 750 su circa 5 milioni di uomini in armi, un dato che rivela il basso tasso di criminalità dell’Esercito Italiano. Fra queste condanne capitali, oltre alle imputazioni relative alla codardia di fronte al nemico, ve ne furono anche altre per crimini comuni. “
«Per quanto riguarda i fucilati spiega Davide Zendri, del Museo Storico Italiano della Guerra di Trento – il nostro istituto ha promosso un convegno, di cui sono usciti gli atti quest’anno. I soldati del Regio Esercito, nella stragrande maggioranza dei casi fecero sempre il loro dovere. Quanto alle condanne capitali, in altri eserciti alleati, come in quello francese, se ne comminarono grossomodo altrettante».
E’ pur vero che nel Regio esercito vigeva una severa disciplina, ma questo era dovuto a fattori che ne imponevano necessariamente l’adozione considerando il pericolo mortale che correva il Regno d’Italia, non solo per la guerra, ma anche perché il Paese, da poco unificato, era percorso da fermenti socialisti che ne minavano la coesione. Inoltre, il basso livello socio-culturale della truppa, formata per la maggior parte da contadini (che pure furono alfabetizzati dalle scuole reggimentali) richiedeva l’applicazione di regole chiarissime, con sanzioni dal forte potere deterrente.
Una recente proposta di legge presentata da Gian Piero Scanu (Pd) intende riabilitare la memoria dei soldati fucilati per diserzione. Daniele Ravenna, consigliere di Stato e membro del Comitato di tutela per il patrimonio storico della Grande guerra del Mibact, in luglio, è stato convocato per un’audizione consultiva dalla Commissione Difesa del Senato, che esaminava la proposta, già approvata dalla Camera. «La questione – sintetizza Ravenna – è stata già ampiamente discussa in Francia e in Gran Bretagna.
In Francia, il Senato ha respinto una proposta analoga al testo Scanu, mentre oltre Manica è stato addirittura il Regno Unito a perdonare i fucilati, ribadendo, quindi, pur dopo un gesto di magnanimità, la piena legittimità di quelle condanne. A parte lo sbaglio giuridico (la riabilitazione può applicarsi solo a una persona viva), l’errore è quello di voler rileggere con gli occhiali di oggi eventi di un secolo fa, legati a una situazione sconvolgente, oggi inimmaginabile. Come possiamo comprendere noi il clima in cui si svolgevano quegli eventi e quei processi sommari? Un clima nel quale si è chiesto a milioni di uomini di mettere in gioco la propria vita, in cui era diritto e dovere di ogni ufficiale passare personalmente per le armi – senza alcun processo – il soldato macchiatosi di gravi colpe in faccia al nemico, con l’incubo delle insubordinazioni e diserzioni che avrebbero potuto compromettere la sopravvivenza dell’intera macchina militare italiana. Quanti, di quei 750 fucilati di cui abbiamo i documenti, erano, poi, colpevoli di reati gravissimi? Quanti hanno semplicemente ceduto a una umanissima paura, che però in quei momenti era una colpa altrettanto grave?»
Uno degli argomenti utilizzati per respingere tali proposte di legge, all’estero, è stato anche quello secondo cui la parificazione dell’onore dei disertori con quello di chi, al contrario, dimostrò coraggio e abnegazione per la Patria, avrebbe creato un’evidente sperequazione.

Il generale Luigi Cadorna

Il famigerato Libretto rosso
Un’altra serie di cliché riguarda il generale Luigi Cadorna, maresciallo d’Italia e Capo di Stato Maggiore dell’Esercito dal luglio del ’14 al novembre del ’17. L’accusa che generalmente gli viene rivolta è quella di aver mandato i nostri soldati al massacro, utilizzando tattiche militari ormai obsolete. Spiega il Col. Cristiano Dechigi, capo dell’Ufficio Storico dell’Esercito: «Quella che è passata alla storia col nome di “libretto rosso” era un’istruzione generica diramata dal Gen. Cadorna nel 1915 dal titolo “Attacco frontale e ammaestramento tattico”. Conteneva dei precetti estremamente moderni e adeguati al combattimento di trincea che non si discostavano da quanto praticato negli altri eserciti dell’Intesa e degli Imperi Centrali.

Il punto è che il dispiegamento delle trincee nemiche, nella maggior parte dei casi, non poteva prevedere altro che attacchi frontali, preceduti da bombardamenti di artiglieria volti a neutralizzare le difese avversarie, in un punto specifico, nel quale far poi irrompere la fanteria. In molti criticano l’attacco frontale, ma in pochi spiegano come si sarebbe potuto fare diversamente!
Nelle disposizioni di Cadorna si percepisce una logica attenzione alla protezione dei fanti, che dovevano avvicinarsi ai trinceramenti nemici il più possibile al coperto, magari di notte, scavando trincee o, perfino, tunnel. Il fallimento delle offensive italiane nel 1915 fu dovuto in gran parte alla penuria di artiglierie capaci di aprire varchi nei reticolati e distruggere le trincee avversarie, e non alla tattica dell’assalto frontale in sé».
Un generale incompreso?
In «Luigi Cadorna – Una biografia militare», Pierluigi Romeo di Colloredo spiega come il generale piemontese fu l’unico capo di stato maggiore alleato a ragionare in termini di «guerra di coalizione» cercando di coordinarsi con i suoi omologhi dell’Intesa che, pure, non lo amavano. Anche la figura di autocrate, fautore di una disciplina crudele ed ottusa, che gli è stata attribuita, viene ridimensionata da Colloredo sulla base della corrispondenza di Cadorna con il governo. I suoi «siluramenti» di generali e colonnelli, anche se produssero un clima di apprensione fra gli ufficiali superiori e generali, furono in gran parte giustificati e voluti nell’obiettivo di salvare le operazioni – e di conseguenza i soldati – dalla gestione debole, o incompetente, da parte di comandanti non all’altezza. La sua fiera indipendenza dalla politica e la sua gestione accentratrice, non erano del tutto immotivate, anche ricordando la sua brutta esperienza avuta nella battaglia di Custoza dove il comando militare, suddiviso fra Vittorio Emanuele II e i generali Cialdini e La Marmora aveva portato alla disfatta.
Cadorna dimostrò di sapersi plasmare alle necessità del campo di battaglia e a lui, comunque, si devono i successi del Regio Esercito fino al ’17 con perdite, come già evidenziato, inferiori a quelle di ben sei tra le principali nazioni belligeranti. «Dapprima, la sua guerra d’assedio – continua il Col. Dechigi – riuscì vincente nel corso della sesta battaglia dell’Isonzo che portò alla conquista di Gorizia e del San Michele. Nel 1916, Cadorna cambiò nuovamente tattica: ordinò l’interruzione degli attacchi dopo i primi assalti ed il consolidamento del terreno conquistato, senza spingere oltre i reparti od insistere in attacchi già falliti. Nel 1917, allo scopo di ottenere un maggiore capacità di penetrazione nelle trincee nemiche, Cadorna acconsentì alla creazione dei primi reparti d’assalto, presto e meglio noti come Arditi».

Caporetto, Le truppe tedesche avanzano lungo la valle dell’Isonzo

Le Caporetto degli altri e una nuova ipotesi
Anche la leggenda di un Capo di Stato Maggiore sorpreso dagli avvenimenti e incredulo circa l’offensiva nemica a Caporetto viene del tutto sfatata dallo studio fatto preparare dallo stesso Cadorna già nel giugno 1917 in previsione di un eventuale ripiegamento sul Piave. Il Generale applicò prontamente il suo “piano B” dopo Caporetto, salvando l’esercito e vincendo la battaglia di contrattacco con pochissime perdite.
Si ricordi che furono solo la 2ª Armata ed il XII Corpo d’Armata della Zona Carnia, ad essere coinvolti nel disastro; le altre Armate (1ª, 3ª e 4ª) tennero molto bene e si deve a loro la vittoria nella battaglia d’arresto del novembre-dicembre 1917 che salvò l’Italia e l’Intesa. Se, infatti, l’Italia, fosse uscita dal conflitto, tutte le forze austro-ungariche si sarebbero riversate sul fronte francese alterando in modo decisivo i rapporti di forze tra Tedeschi e Franco-britannici, a tutto vantaggio dei primi.
Caporetto è stata tramandata, forse con quel tipico masochismo culturale italiano, come il simbolo di tutte le sconfitte della Grande Guerra. Deve essere comunque inquadrata nella situazione di crisi di quasi tutti gli alleati dell’Intesa del 1917 gettando un occhio anche alle ben più disastrose «Caporetto degli altri». In Francia, ad esempio, il fallimento dell’offensiva Nivelle dell’aprile-maggio 1917 debilitò il morale dell’esercito francese al punto tale che in ben 16 corpi d’armata si ebbero casi di ammutinamento; il paese cadde in una profonda depressione e il disfattismo e gli scandali dilagarono. La Russia, poi, addirittura, abbandonò la lotta a causa della Rivoluzione d’Ottobre. La crisi francese ed il dissolvimento dell’Impero zarista si ripercossero sull’Italia, che dovette sopportare in quell’anno il maggior peso della guerra.
Una tesi piuttosto audace è stata avanzata da Tiziano Berté in «Caporetto: sconfitta o vittoria?» dove si sostiene la tesi che lo sfondamento del fronte rientrasse a pieno nella strategia di Cadorna e che la colpa dello sfacelo della II armata fosse da attribuirsi a un atto di quasi- insubordinazione del suo comandante, il generale (massone) Luigi Capello.
Il bollettino fatale
Tra le varie nefandezze di cui Cadorna viene accusato, vi è quella di aver scaricato la colpa di Caporetto sui soldati, anziché assumersene le responsabilità.
«Dopo la disfatta –spiega il Col. Carlo Cadorna, discendente del Generale, in un’intervista rilasciata a Antonio De Martini – fu tenuta una riunione alla quale parteciparono due ministri che discussero su come fermare le numerose diserzioni che si erano verificate. Fu, così, emesso un bollettino che, accusando duramente di codardia alcune formazioni, doveva mettere a confronto i reparti che si erano comportati valorosamente con quelli che si erano vilmente arresi, attribuendo, in ogni caso, e implicitamente, la colpa ai comandanti degli stessi. Il bollettino fu efficace sotto l’aspetto militare e riuscì a bloccare il fenomeno delle diserzioni, tant’è vero che potemmo ritirarci sul Piave e difenderci vittoriosamente. Sotto l’aspetto politico, invece, si rivelò deleterio per l’immagine della Nazione, ma questo danno è da attribuirsi ai due ministri, poiché Cadorna era un militare e non aveva competenza per le questioni mediatico-politiche. Il documento si rivelò negativo, alla fin fine, soprattutto per lui che era stato convinto dai ministri a firmare il bollettino da loro già approvato e ad assumersene la responsabilità. Tutto questo lascia intravedere un complotto per liberarsi della presenza ingombrante di un militare che – così come lo definì D’Annunzio – era “tagliato nel granito” la pietra del lago dove era nato».
Non era un generale amato in Patria, ma – per fortuna italiana – nemmeno dal nemico. Il Feldmarschall Franz Conrad von Hötzendorf, capo di stato maggiore austroungarico, ebbe a dire che Caporetto era pure servita a qualcosa: se non altro, a togliere di mezzo Cadorna.
Sulla disfatta italiana, vengono poi del tutto ignorate dalla storiografia, ancor oggi, le responsabilità di un altro generale massone che, nonostante tutto, rimarrà a lungo protagonista della storia italiana.
Come riporta lo storico Marco Patricelli: «Quando i giornali pubblicarono le conclusioni dell’inchiesta, l’11 settembre 1919, Cadorna scrisse a “Vita italiana”: «Si accollano le responsabilità a me e ai generali Porro, Capello, Montuori, Bongiovanni, Cavaciocchi e neppure si parla di Badoglio, le cui responsabilità sono gravissime (…). E il Badoglio la passa liscia! Qui c’entra evidentemente la massoneria e probabilmente altre influenze, visto gli onori che gli hanno elargito in seguito”. In effetti, dalle risultanze della Commissione d’inchiesta erano state fatte sparire tredici pagine. Riguardavano tutte Badoglio, per il quale vennero usati scudi robusti e cortine fumogene impenetrabili per sgravarlo di ogni responsabilità».
In sintesi, Cadorna fu un Capo di Stato Maggiore alla cui ferrea volontà e determinazione si devono, probabilmente, alcuni meriti da riconoscere, al di là delle facili caratterizzazioni e della damnatio memoriae di cui fu fatto oggetto.
Un approccio lucidamente critico sembra anche indispensabile per tenere conto degli interessi ideologici che hanno ispirato, nel corso degli ultimi decenni, la propaganda politica, la letteratura e il cinema ai quali è stato lasciato campo libero, dal mondo della cultura, nel tramandare alla coscienza collettiva la memoria della Grande Guerra.

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