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L'Insolita Storia

Attacco ai classici: gli offensivamente bianchi gessi di Cambridge

Dalle pagine Iconoclastia e di questo blog il fenomeno della cancel culture applicato alla Storia è stato analizzato attraverso la ricontestualizzazione e cancellazione di figure chiave del mito di fondazione degli Stati Uniti d’America come Lincoln e Roosevelt. In questa analisi si sono volutamente messe in secondo le avvisaglie di un altro corposo fenomeno di cancellazione: il cosiddetto “attack on the Classics“, l’attacco ai Classici. Ovvero tutti quei fenomeni tesi a ridimensionare lo studio e lo spazio dedicato ai “Classici”, ovvero in lingua inglese tutto quello che riguarda il mondo greco-romano, epica e letteratura in primis. Ma nel sentire comune l’attacco ai Classics può arrivare a includere tutto quello che è “diventato un classico” da qualche secolo, come il “più recente” Shakespeare.

Quello del “ridimensionamento” dei classici è un fenomeno ctonio che va avanti da molti anni e in cui le concause si sommano tra di loro. In Italia lo sappiamo bene. Vi ricordate le tre “i”, inglese, internet e impresa della scuola di un ventennio orsono? O dall’infelice affermazione “con la cultura non si mangia” da cui ci separano due lustri?

Ma quelle, in prima istanza, erano pie illusioni di un’ideale aziendalista dove la scuola doveva formare tecnici per il “nuovo mondo impavido” e non cittadini. La cultura classica e le “lingue morte” come greco o latino ben poco servivano in quel contesto.

Cancellare un modello ideale che ha ispirato secoli di cultura

Ma da qualche anno a questa parte nel mettere all’angolo i classici si è sommata una spinta ben più dirompente dell’aziendalismo e dell’idea che il progresso tecnico possa fare a meno delle radici classiche, quella dell’autorazzismo. I Classics nel mondo accademico statunitense e britannico ormai rappresentano l’onnipresente civilità occidentale bianca che vuole imporre la sua visione del mondo.

Se lo studio dell’antichità classica nel corso dei secoli è sempre stato il modello ideale per eccellenza, allora i classici sono necessariamente ispirazione in positivo e in negativo per democrazie e totalitarismi. La grandezza del pensiero e dell’arte greco-romana è stata tale che, volente o nolente, è servita a plasmare il passato. Magari anche quel passato di cui alcuni non vanno più tanto fieri.

Nella prospettiva woke per cancellare il passato necessariamente bisogna lavorare per decostruire il mito dei classici che quel passato hanno contribuito a costruire. Un processo che i lettori di Iconoclastia ben conoscono: contestualizzare, decostruire e infine, cancellare.

Altre motivazioni per cancellare i classici il fatto che romani e greci praticassero la schiavitù. E i romani che avevano un impero. Che la democrazia ateniese non fosse così democratica. E che le donne, per i parametri attuali occidentali, fossero oppresse. Nemmeno l’idea che greci e romani fossero un po’ più tolleranti su certi aspetti delle tematiche omosessuali consente alla cultura greco-romana di recuperare punti per gli ideologi del woke.

Su queste direttrici va avanti da qualche anno un vero e proprio attacco ai classici. Una realtà che spesso viene negata, poiché la sua trattazione passa per notizie talvolta, apparentemente ingigatite, o semplicemente, imprecise. Una trattazione che consente facile gioco di sponda a chi vuole negare il fenomeno della cancel culture.

La gipsoteca di Cambridge

L’ultima notizia dal fronte dell’attacco ai classici arriva dall’Università di Cambridge (sì, Cambridge che negli ultimi tempi cerca di darsi piuttosto da fare per superare in wokeism le università statunitensi, vedi il celebre caso del convegno dove Churchill veniva definito peggio dei nazisti). La Faculty of Classics dispone di una gipsoteca, il Museum of Classical Archaeology, che raccoglie un’ampia collezione di gessi greco-romani. Tra i calchi riprodotti, opere come il Lacoonte o il Fauno Barberini.

Ovviamente, trattandosi di calchi e riproduzioni in gesso, tutte le statue esposte sono bianche. Lapalissiano. Ma questo oggi è un problema. Come apprendiamo dal piano d’azione che la facoltà dei Classici di Cambridge ha realizzato in risposta alla lettera aperta sull’anti-razzismo del luglio 2020, la collezione di gessi in oggetto: «dà un’impressione fuorviante sul candore e l’assenza di diversità del mondo greco e romano».

Il fatto che una gipsoteca universitaria debba spiegare perché i gessi sono bianchi, e perché le statue greche e romane non abbiano tutta questa varietà multiculturale si presta a facili ironie. Lo storico Alan Sked, tra i fondatori del partito euroscettico UKIP ha subito trollato l’università di Cambridge dai microfoni di RT, Russia Today. E la notizia è stata ripresa in maniera molto critica da tutta la stampa conservatrice, dal Telegraph allo Spectator. Arrivando anche sulle pagine di Dagospia per la penna di Antonio Riello, che già a novembre scorso si era occupato degli eccessi di Cambridge. Fin dal titolo il pezzo non ammette sconti: I disastri della “cancel culture” applicata all’arte – Antonio Riello: “la gipsoteca di cambridge luogo di presunti misfatti razzisti? Un gruppo di studenti-woke (il cui bersaglio preferito e’il mondo classico) contesta l’esposizione al pubblico delle copie in gesso di sculture greche e romane, chiedendone a gran voce la chiusura o almeno un radicale “riassetto ideologico”. Le decisioni del consiglio di facoltà.

Si parla senza mezzi termini di cancel culture, wokeism applicata all’arte e alla Storia. Per una volta un po’ meno vox clamantis in deserto.

Statue a colori

La scelta di Cambridge, al di là delle facili considerazioni stile Russia Today, è quanto mai grave, in quanto la gipsoteca in questione fosse all’avanguardia nel lavoro di ricostruzione delle policromie della statuaria greco-romana. Già nel 1975 aveva fornito una possibile ricostruzione dei colori della Kore con peplo di Atene: esponendo la versione “colorata” accanto al calco dell’originale. Insomma il Museum of Classical Archaeology era già un avanguardia dove si approfondiva il tema della policromia nella scultura classica.

Il calco dell’originale e la ricostruzione a colori al Museo di Cambridge (via Commons)

Un lavoro fatto quasi trent’anni prima dell’esposizione Gods in color che ha reso celebre questo tipo di ricostruzioni. Dando vita sia a ipotesi sempre più fantasiose in cui le palette cromatiche utilizzate sono sempre più distanti dalle testimonianze della pittura antica, come certi “Augusti di Prima Porta” in cui i colori utilizzati non hanno nulla a che vedere con i cromatismi degli affreschi villa di Livia dove la statua in questione era ospitata.

Sia alla leggenda nera per cui fino agli anni Settanta del Novecento si credeva che tutte le statue greco-romane fossero bianche per colpa di un’ossessione ottocentesca per il suprematismo bianco, figlia della Storia dell’Arte dell’Antichità di Winckelmann del 1764 ove si legge: «Il colore contribuisce alla bellezza, ma non è la bellezza, bensì esso mette soprattutto in risalto questa e le sue forme. Ma poiché il colore bianco è quello che respinge la maggior parte dei raggi luminosi e che quindi si rende più percepibile, un bel corpo sarà allora tanto più bello quanto più è bianco, e quando è nudo sembrerà più grande di quanto è effettivamente». Un’affermazione che, esiliata dal suo contesto, è diventata la “bestia nera” (si perdoni la scelta cromatica della bestia) degli antirazzisti. Si legge nell’intervista al classicista Padilla Peralta del New York Times: «Più il corpo è bianco, più è bello”, ha scritto Winkelmann. Mentre gli studiosi del Rinascimento erano affascinati dalla molteplicità delle culture del mondo antico, i pensatori illuministi crearono una gerarchia con la Grecia e Roma, codificate come bianche, in cima, e tutto il resto sotto. Questa esclusione era il cuore dei Classic come progetto […]».

Winckelmann razzista?

Affermazioni capziose per qualunque appassionato di storia dell’arte: nel Barocco Bernini faceva bellissime statue in marmo bianco, nel Rinascimento Michelangelo faceva bellissime statue in marmo bianco. E nel primo rinascimento, con reminiscenze dell’arte gotica, come nei busti femminili di Francesco Laurana si andava di marmo bianco. Insomma se per Padilla Peralta il Rinascimento era affascinato «dalla molteplicità delle culture del mondo antico», pure già si scolpiva esaltando il “candore” del marmo di Carrara.

Altro elemento capzioso per uno storico dell’arte è la posizione di Winckelmann. Basta approfondire come i suoi studi, e le sue affermazioni sul bianco, avessero a che fare non con la razza, bensì con un dibattito figlio della cosiddetta Querelle du coloris, la disputa sui colori. Un dibatitto estetico-artistico intorno al fatto se in pittura fosse più importante la linea o il colore, e che tenne occupata l’Académie royale de peinture et de sculpture per più di quarant’anni.

Winckelmann ritratto da Von Maron (via Commons)

Scrive Lasse Hodne, professore alla Norges teknisk-naturvitenskapelige universitet nell’articolo Winckelmann’s Depreciation of Colour in Light of the Querelle du coloris and Recent Critique: «la visione popolare di Winckelmann come un adoratore della bianchezza è probabilmente basata in gran parte su interpretazioni errate delle sue affermazioni, come il fatto che il colore “dovrebbe avere solo una piccola parte nella nostra considerazione della bellezza” che è stato spesso interpretato come riguardante il colore della pelle. La tendenza degli ultimi due decenni a leggere i testi di Winckelmann alla luce delle questioni razziali è probabilmente dovuta, in qualche misura, all’emergere di un nuovo campo di studi nelle scienze umane, i “whiteness studies” o “critical white studies».

Insomma il problema delle statue bianche e della policromia greco-romana è ampiamente montato ad arte dai soliti esagitati woke. Anche perché è bene ricordare (ma è un argomento su cui torneremo) che se sicuramente nel mondo greco-romano esistevano statue e bassorilievi dipinti, non abbiamo certezza di quanto, quante e come fossero dipinte. Non abbiamo certezza se esistessero anche statue monocrome o con solo alcuni dettagli dipinti (ad esempio quelle in bronzo o bronzo dorato). Le testimonianze dirette dell’epoca attraverso gli affreschi sono minime e ci dicono ben poco, vedi la statua di Marte in un affresco pompeiano dove a essere policromi sembrerebbero essere solo mantello, copricapo e alcuni dettagli della testa.

Statua di Marte in un affresco della Casa di Venere in conchiglia, Pompei (via Univesity of Kent – Paula Lock)

Come siamo arrivati a questo

Insomma, ad essere accademici la gipsoteca di Cambridge era già all’avanguardia in tema di statue policrome nell’antichità classica, e avrebbe dovuto avere tutti gli strumenti culturali per capire che l’attacco al candore dei marmi (per tacer di quello dei gessi) delle statue greco-romane è spesso alimentato da polemiche pretestuose in cui, come in tutti i casi di idelogia woke e cancel culture si è incapaci di leggere il contesto in cui Winckelmann scriveva. Anche perché, come fa notare lo storico fondatore dell’UKIP a RT: «you can’t have diversity among statues». Potrà non piacerci Sked, la London School of Economics, l’UKIP o RT, ma il fatto che non ci possa essere tutta quella diversità tra statue di oltre duemila anni fa, le poche che oggi sopravvivono, è, per l’appunto, un fatto. E come abbiamo visto in molti altri casi si inizia con il cartello, e se il passato non si adegua (cosa che non potrà mai fare visto che è passato), si finisce con la cancellazione.

Più che i cartelli esplicativi che arriveranno, al solito in questi fenomeni l’aspetto più interessante è il processo a cui si è arrivati a questa scelta della Faculty of Classics di Cambridge di contestualizzare l’ovvio anche a costo di affermare che Winckelmann fosse già un suprematista a metà Settecento.

Il primo atto dell’istituzionalizzazione dell’attaco ai classici che hanno portato alla “contestualizzazione” della Gipsoteca di Cambridge inizia il 14 giugno 2020 con gli studenti di Oxford. Nell’evolvere del fenomeno Black Lives Matter dopo la morte di George Floyd nelle mani della polizia firmano una lettera aperta che mette sul banco d’accusa i Classics. Si legge: «riconoscere e correggere il ruolo che i Classics stessi hanno giocato nella continua oppressione ed emarginazione degli studiosi neri e delle vite nere».

Per poi ribadire con un virgolettato della Christian Cole Society for Classicists of Colour «Riconoscere la complicità delle discipline classiche nel campo nella costruzione e nella partecipazione a strutture e atteggiamenti educativi razzisti e anti-neri». E una lunga lista di richieste, tra cui: «Esigiamo la rimozione di riferimenti non contestualizzati alla schiavitù, al genocidio, all’imperialismo, ai “barbari”, allo stupro e alla misoginia dagli esercizi linguistici, e un’attenzione in tutta la formazione linguistica a pedagogie inclusive».

Insomma i Classics, lo studio della letteratura e dell’arte greco-romana come arco di volta della supremazia bianca e dell’oppressione dei neri. A questa lettera risponde un membro della facoltà dei Classics di Cambridge, il prof. Butterfield. Il quale, a maggior colpa, nella sua foto del profilo tiene orgogliosamente in braccio un pupattolo biondo che si presume esserne l’erede, omette colpevolmente qualunque forma di multicultuturalismo o di elementi queer.

Il prof. Butterfield nella foto scelta per il sito dell’Università di Cambridge. “L’assenza di elementi multiculturali o almeno queer è evidente”.

Butterfield scrive sul The Spectator, periodico di area conservatrice, una pezzo che già in titolo e sottotitolo dice tutto: “Cosa significherebbe “decolonizzare” i classici? –
I limiti dell’argomento sono legati dall’ostinazione del passato
“. Un passato ostinato che ci ha portato fin qui. Quel passato senza sufficiente diversità.

Gli studenti di Cambridge non gradiscono la presa di posizione del professore e senza nominarlo, prima da un blog di uno studente attivista, poi con una lettera aperta alzano il tiro. Non solo i Classics sono la quinta colonna della supremazia bianca. Non solo i greco-romani erano gentaglia misogina e imperialista, ma le persone “BAME” (Black, Asiana and Minority Ethnic) sono sottorappresentate. A quel punto la Faculty of Classics di Cambridge prende provvedimento e propone il piano d’azione di cui abbiamo condiviso la parte relativa alla gipsoteca. Butterfield, buon per lui, non viene licenziato (negli USA non gli sarebbe andata così bene…). Anzi quasi rilancia con un’email a Varsity, il quotidiano dell’Università che spiega la “sottorappresentazione” delle persone BAME con un’altra affermazione lapalissiana e quindi razzista che riassumiamo così: le minoranze sono sottorappresentate in quanto minoranze… «In una e-mail a Varsity, il dottor Butterfield ha rivelato che le percentuali di candidati non bianchi per il corso di 3 anni e 4 anni a Oxbridge dal 2010-2019 erano rispettivamente il 12,6% e il 17%. Ha continuato che le proporzioni medie per le classi ammesse negli ultimi dieci anni erano del 12,7% e del 15,3% BAME. La proporzione nazionale di BAME tra i 19 e i 26 anni è del 18% in Gran Bretagna, come indicato nell’articolo dello Spectator».

Insomma a livello di iscritti la percentuale non è così diversa dalla percentuale di popolazione nel Regno Unito. Lo scarto oscilla tra un punto percentuale e cinque punti percentuali, senza comunque tener conto della popolazione universitaria. Pure Butterfield spiega che tra dottorandi e corpo docente le minoranze hanno percentuali nettamente più basse.

Resta però impossibile determinare se questo scarto nel corpo docente sia imputabile all’intrinseco razzismo dei classici, a quello del corpo docente. O ad altre cause. Né pare interessato a scoprirlo chi firma le lettere aperte, in cui si fanno risalire tutte le colpe a figure del calibro di Omero, Ovidio, Virgilio o Lisippo. Maledetti suprematisti.

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