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La storia d’Italia come “terra di frontiera”

Copertina_ConfiniConflitti-3-350x496Marco Valle non è uno storico professionista e questo lo differenzia da alcuni “professori di storia”, sacerdoti del mainstream, officianti del «politicamente corretto» che hanno fatto del loro «mestiere» un esercizio stanco e ripetitivo, simile a tanti altri lavori soffocati dalla monotonia della routine impiegatizia. Marco Valle non è neppure un amateur, un semplice dilettante, un orecchiante dell’analisi del passato che usurpa, come sempre più spesso accade nei talk shows e sulle pagine dei giornali, il titolo di storico. Marco Valle è invece un amante esigente e vigoroso ma insieme devoto e rispettoso della storia indagata nella sua lunga, complessa, accidentata, mai rettilinea continuità temporale, nella quale ogni evento del passato si fa stimolo e opportunità per pensare la dinamica del presente.

di Eugenio Di Rienzo dal Lanostrastoria del 3 dicembre 2014 La nostra storia

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Marco Valle è soprattutto un «uomo di frontiera (triestino di origine istriana, italiano e croato per sangue e cultura), che, come altri suoi illustri conterranei, Biagio Marin, Claudio Magris e il meno noto Franco Vegliani, conosce, per esperienza biografica e memoria familiare, la ricchezza e la miseria, i rischi e i vantaggi, i lutti e le occasioni vitali delle «terre di confine». Luoghi dell’anima e dello spirito, e non mere espressioni geografiche, che, smarrendo ciclicamente la loro natura di ponte inter-etnico e inter-culturale, si trasformano in «terre di sangue», in teatro d’inestinguibili conflitti razziali e religiosi. In quelle regioni, infatti, come ha scritto un altro «man on the border», il bosniaco Ivo Andrić, «la progressione del tempo lineare non riesce a comprimere quell’oscuro fondo della coscienza, dove vivono e fermentano i sentimenti fondamentali e le indistruttibili persuasioni delle singole razze, fedi, caste; sentimenti e persuasioni che, apparentemente morti e seppelliti, preparano per successivi, lontani tempi, inaudite metamorfosi e catastrofi senza le quali, a quanto pare, non possono esistere i popoli».
Da questo complesso patrimonio esistenziale e culturale è un nato un volume di saggi, che si presenta intrigante e inquietante già dal titolo: “Conflitti e confini. Uomini, Imperi e sovranità nazionale” (Eclettica, 2014, pp. 312, € 18,00). Nel libro, che nonostante il suo apparente carattere frammentario è provvisto di una salda coerenza tematica, Valle indaga il drammatico destino del nostro «confine orientale» negli ultimi anni del secondo conflitto e nel primo decenio del secondo dopoguerra. Non solo gli orrori delle foibe, ma anche il martirio di Zara (così bene rappresentato in un dolente saggio di Paolo Simoncelli) e quello di Trieste, violentata dall’odioso e sanguinario protettorato militare britannico, prolungatosi fino all’ottobre 1954, come dalla breve (maggio-giugno 1945) ma efferata e cruenta occupazione dell’IX Korpus dell’Esercito di liberazione titino. E ancora Valle ci rammenta l’oscuro fato dei territori giuliani, dove nel febbraio 1945 i gappisti comunisti, trasformandosi in «volonterosi carnefici» al servizio della politica di potenza della nuova Iugoslavia comunista, trucidarono un reparto di partigiani cattolici e nazionalisti della Brigata Osoppo che, dopo essersi battuti contro le forze d’occupazione germaniche e le milizie della Repubblica Sociale Italiana, si opponevano alla slavizzazione forzata della regione.

Ma Valle non dimentica di mostrarci anche il rovescio di queste funeste vicende, quando ci parla della stolta e gratuita intolleranza del regime fascista verso le popolazioni slave dell’Istria e della Dalmazia, e quando ricorda l’esistenza delle «foibe degli altri» ricostruendo la mattanza delle “milizie bianche” slovene, cattoliche e anticomuniste (i Domobranci) e dei loro congiunti (donne, anziani, bambini) avvenuta nel maggio del 1945 per mano del terrorismo di Stato titoista che poi eresse un vero e proprio «monumento all’infamia» con la costruzione del gulag di Goli Otok. Il campo di sterminio, ubicato in un isolotto posto a breve distanza dalla costa croata, dove dal 1949 al 1955, trovarono la morte, per fame, malattie, maltrattamenti, migliaia di dissidenti al regime di Belgrado, tra i quali molti comunisti italiani di fede stalinista che sconsideratamente avevano oltrepassato il valico di Opicina alla ricerca del «paradiso socialista».

La ricerca di Valle non si limita in ogni modo alla guerreggiata area di confine del litorale adriatico. Per Valle è l’Italia intera, grande piattaforma al centro dell’antico Mare nostrum latino e poi pisano, genovese, veneziano, a essere «terra di frontiera». L’eccezionale posizione geopolitica del nostro Paese gli consentì, infatti, di essere il principale avamposto della Cristianità nella lotta contro l’Islam, il grande emporio degli scambi commerciali tra Europa, Africa settentrionale, Levante, il fecondo laboratorio d’ibridazione di popoli, religioni e culture. Questa stessa posizione lo condannò, tuttavia, ultimata la conquista francese della Corsica (1768), a divenire una volta per sempre la semplice pedina del «Grande Gioco mediterraneo» che, con la decadenza della Spagna dal rango di Big Power, ebbe come uniche protagoniste Parigi e Londra.

E’ soprattutto la più ingombrante presenza inglese nel Mediterraneo che desta l’interesse dell’autore di “Conflitti e confini”. La contesa anglo-francese per l’egemonia sul «grande lago salato», apertasi fin da quando con la pace di Utrecht del 1714 la Gran Bretagna si aggiudicò il controllo di Minorca e Gibilterra e acuitasi prima ancora della spedizione di Bonaparte in Egitto del 1798, fu di fondamentale importanza nell’imprimere una svolta sabauda e unitaria al nostro Risorgimento. Qui Valle sposa senza esitazioni la prospettiva, sviluppatasi in questi ultimi anni, che individua nel sistema delle relazioni internazionali, nella debolezza diplomatica e militare del Regno delle Due Sicilie e nell’azione di Londra i fattori decisivi del crollo del regime borbonico.

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Si tratta di una prospettiva coraggiosa, innovativa e indispensabile se si vuole davvero delineare una nuova storia politica del Mediterraneo e della “Guerra Fredda”, ingaggiata, tra metà e fine del XIX secolo, dalle due principali Potenze marittime europee per affermare la loro supremazia sul «Grande Spazio» marittimo che, grazie al Canale di Suez (edificato tra 1859 e 1869), uscì dalla subordinazione nella quale lo aveva rinchiuso, fin dal Cinquecento, lo sviluppo delle rotte oceaniche. Grazie al taglio dell’istmo, che separava Porto Said da Suez, il Mediterraneo riacquistò allora una piena centralità economica, politica e strategica come «passaggio a sud-est» tra Atlantico e Oceano Indiano e quindi come «vena iugulare» dell’Impero britannico, offrendo la possibilità di consentire la navigazione dall’Europa all’Asia senza circumnavigare l’Africa lungo la rotta del Capo di Buona Speranza.

Dal 1859 il Regno Unito, già padrone di Gibilterra e di Malta, non poté quindi tollerare la presenza di una Potenza ostile o semplicemente estranea alla sua sfera egemonica (come il Regno di Napoli o un’Italia infeudata alla politica di Parigi) che, posta al centro del Mediterraneo, fosse stata in grado di minacciare dalle coste siciliane la principale linea di comunicazione commerciale e militare tra la madrepatria l’India britannica. Dopo aver smaccatamente appoggiato la spedizione di Garibaldi, prima consentendo lo sbarco degli insurgents in camicia rossa a Marsala poi permettendo il loro passaggio in Calabria, nonostante la decisa opposizione di Napoleone III, Londra riconobbe immediatamente, sempre in un’ottica antifrancese, il Regno d’Italia, nel tentativo di porre una forte ipoteca sulla politica estera della nuova organizzazione statale. Come osservò Federico Chabod in un breve, lucido saggio del 1940 si trattò di un grave errore di valutazione. Le bronzee leggi della Geopolitica costringevano, infatti, il giovane Stato a esercitare una politica navale e internazionale attiva e autonoma. Per riprendere una frase di Fernand Braudel, ricordata da Valle, «l’Italia ha sempre trovato nel Mediterraneo il segno del proprio destino poiché essa ne costituisce l’asse mediano e le è dunque naturale il sogno e la possibilità di dominare quel mare in tutta la sua estensione».

Giustamente Valle sostiene che fu proprio il maggior artefice dell’unità italiana a essere pervaso da questa «passione mediterranea» che la vulgata storiografica ha erroneamente attribuito al solo Francesco Crispi e poi Mussolini. Nella nota preliminare al bilancio del ministero della Marina, per l’anno 1861, Cavour, primo Presidente del Consiglio italiano, che cumulava anche l’interim di quel dicastero, affermò, infatti, che «colui che è preposto all’amministrazione delle cose di mare di uno Stato collocato in mezzo al Mediterraneo, ricco di invidiabile estensione di coste e di una numerosa popolazione marinara, deve sentire il dovere di dare il più ampio sviluppo alle risorse navali della Nazione, valendosi degli elementi di forza che ha trovato nella nuove province». Era un progetto che, collegato a quello di un’organizzazione federalistica del nuovo Regno in senso fiscale e amministrativo anch’essa ideata da Cavour, avrebbe forse impedito e almeno contenuto in limiti sopportabili la nascita del divario economico Nord-Sud-Est. Un divario che lo sviluppo del processo unitario dopo il 1861, principalmente seppur non esclusivamente incentrato sulla promozione delle potenzialità del futuro «triangolo industriale», provocò col risultato di mettere a repentaglio, ieri come oggi, la stessa coesione nazionale.

Se veramente voleva esistere come Stato pienamente sovrano e poi resistere alle sfide lanciate da una situazione internazionale in rapida via di trasformazione, la Nuova Italia, ormai affacciata su tre teatri marittimi, come lo era stata la media Potenza napoletana, doveva, secondo Cavour, cessare di privilegiare a senso unico la «tensione lotaringica» del Piemonte principalmente rivolta verso Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi. Il nostro Paese non poteva, infatti, non puntare anche su una coraggiosa e intraprendente politica mediterranea in grado di consolidarne la precaria indipendenza e di offrire nuove occasioni di sviluppo alle regioni meridionali e orientali storicamente orientate verso la Penisola balcanica, l’Africa settentrionale e l’immenso litorale islamico esteso dall’Anatolia alla Tunisia.

Per portare a compimento questo programma, Cavour reputava indispensabile creare un grande marina mercantile che avrebbe consentito al Regno di Vittorio Emanuele II di non dipendere dalle flotte di altri Paesi per i suoi scambi economici. Occorreva poi sostenere con sovvenzioni statali le Società di navigazione nazionali disposte ad assicurare collegamenti regolari tra l’Italia e le Americhe e infine favorire il rapido passaggio dalla propulsione velica a quella a motore. Non minore attenzione doveva essere riservata anche alla marina militare. In caso di guerra o di crisi internazionali, le rotte marittime, solcate dal nostro naviglio, richiedevano di essere difese da un dispositivo bellico adeguato perché, come la Gran Bretagna aveva insegnato, commercio e guerra navale erano due facce della stessa medaglia.

La prematura scomparsa di Cavour impedì disgraziatamente che questo ambizioso piano fosse gestito dal suo creatore, il quale sicuramente avrebbe inserito l’Italia, a migliori condizioni, nel nuovo grande e promettente ciclo storico che l’apertura dell’arteria di Suez consegnava alle Talassocrazie europee. Valle non manca comunque di evidenziare che il più stretto nucleo dei collaboratori dello statista piemontese, che gli subentrarono alla guida del Paese, fu sostanzialmente in grado di seguire l’itinerario tracciato dal loro predecessore. Sfidando il malcontento e l’irritazione di Parigi, Vienna e Londra, questi uomini, superata la grave crisi di Lissa, provvidero alla costruzione di una potente Armata di mare, di un’eccellente flotta commerciale e di un’industria siderurgica e cantieristica di alto livello (non tributaria di quella inglese), rendendo possibile una futura espansione della Penisola nell’oltremare. Grazie agli sforzi e alle competenze di tre ottimi ministri della Marina (Augusto Riboty, Benedetto Brin, Simone de Saint Bon), nell’ultimo trentennio del XIX secolo i vascelli della «Terza Roma», per usare l’espressione coniata da Mazzini, assicurarono una stabile presenza italiana nel Levante, nel Mar Mero, nel Mar Rosso, sulle sponde africane e si spinsero fino al Rio de la Plata per assicurare la protezione dei nostri emigranti.

Al netto di queste importanti realizzazioni, i successori di Cavour, condizionati dalle debolezze strutturali di un Paese ancora disunito di fatto, arretrato nel Settentrione come nel Meridione e parossisticamente impegnato in una sfibrante opera di Nation-building e di modernizzazione, non furono in grado di mettere a fuoco con la stessa lucidità il grande disegno mediterraneo del loro precursore. Come Valle ci ricorda, Ricasoli, Rattazzi, Menabrea, Lanza, Minghetti, Depretis, di Rudinì, Crispi, Giolitti si affacciarono sulla scena internazionale privi di una proposta politica globale che forse necessariamente, vista la difficile situazione dell’Italia, ma certo troppo spesso li fece oscillare tra spericolato avventurismo e rivendicazione di un’orgogliosa volontà di potenza (entrambi incompatibili con le ridotte risorse disponibili), opportunismo, eccessiva prudenza, acquiescenza verso l’agenda dettata da più vigorosi partners europei, esclusivo interesse per i problemi della politica interna. Alla ricerca di un equilibrio marittimo e continentale, che avrebbe dovuto tutelare la media Potenza italiana dalla minaccia di avversari storici e di nuovi potenziali nemici, sicuramente a noi superiori per forza e determinazione, la strategia dei nostri governanti si sviluppò di necessità, fino al 1914, nel tentativo di tessere una sottile e a volte ambigua opera di mediazione tra Germania e Francia e in seguito tra Triplice Alleanza e Regno Unito.

Con sperimentato realismo, annota Valle, il Foreign Office tentò di gestire a suo vantaggio il moderato protagonismo delle cancellerie di Firenze e Roma – non pregiudizialmente avverse ma neppure supinamente subalterne alla dominante Albione – e di anestetizzare le nostre pulsioni espansionistiche e coloniali. Se dal 1861 fino ai primi del Novecento. Londra continuò a valutare il Regno d’Italia come un necessario contrappeso alla presenza francese nel Mediterraneo, pure essa ci rifiutò nel 1863 l’acquisto delle Isole Ionie e dall’anno successivo scoraggiò sistematicamente le nostre ambizioni sulla Tunisia che nel 1881 fu infine sottoposta al protettorato di Parigi. Anche la modesta presenza italiana nel Mar Rosso e in Africa Orientale fu guardata con malcelato sospetto dall’Inghilterra che ci concesse graziosamente il benestare a una limitata espansione in quell’area solo dopo il successo della sanguinosa rivolta islamista contro la dominazione anglo-egiziana del Sudan che iniziata nel 1881 terminò, come guerra guerregiata, nell’aprile 1896 con la vittoriosa difesa di Cassala da parte delle nostre truppe.

Infine, se il consenso di Withehall si rivelò determinate, sul piano diplomatico, per consentire a Giolitti la conquista della Libia nel 1911, la coeva occupazione italiana del Dodecaneso fu giudicata invece dall’Inghilterra come un’indebita intrusione nell’Egeo e come una virtuale minaccia alle basi cipriote della Mediterranean Fleet e alla sicurezza di Suez. Questi malumori e questi sospetti riaffiorarono con forza, già nel periodo immediatamente precedente la fine del primo conflitto mondiale, nel primissimo dopoguerra e fino al 1920. Allora Francia e Regno Unito, i nostri maggiori alleati nella sanguinosa contesa contro gli Imperi centrali, sostennero e fomentarono le rivendicazioni anti-italiane di Atene e Belgrado, tentarono di escludere Roma dalla spartizione dell’Impero ottomano e manovrarono con grande attivismo e spregiudicatezza per impedire o limitare drasticamente un possibile incremento della nostra presenza militare e della nostra influenza politica nello Ionio, nei Balcani e nel Levante.

Partendo da queste premesse, osserva ancora Valle, è agevole comprendere la durissima reazione di Londra contro l’invasione dell’Etiopia del 1935 che rischiava d’infrangere il secolare equilibrio mediterraneo favorevole al Regno Unito. Con la decisione di Mussolini di chiudere l’annosa partita del Corno d’Africa, l’Italia fascista portava a compimento le ambizioni coloniali del Risorgimento liberale e democratico (si pensi a Mazzini) ma indirettamente minacciava la stessa tenuta dell’Impero britannico, già resa precaria dai movimenti nazionalisti indiani e arabi, dall’espansionismo russo in Afghanistan, da quello giapponese in Oriente e dall’insidiosa penetrazione economica statunitense nella Penisola arabica, in Iran, in Iraq. L’incapacità di Roma di non prevedere il livello della risposta britannica a quella sfida e quella di Londra di non aver saputo valutare nella loro esatta e in fondo limitata dimensione gli obiettivi dell’imperialismo littorio furono entrambe uno sbaglio fatale. La crisi anglo-italiana del 1935-1936, che rischiò di provocare un vero conflitto nella fluida frontiera del Mediterraneo, distrusse i promettenti presupposti della «Grande alleanza» antinazista, in grado di raggruppare i vincitori del 1918 e in prospettiva la stessa Unione Sovietica, e costituì una delle cause non occasionali della dinamica che, di lì a pochi anni, contribuirono a spalancare le porte del Tempio di Giano di quasi tutte le capitali europee.

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