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Napoleone III, l’imperatore francese indispensabile all’Italia

Victor Hugo lo detestava al punto da definirlo «Napoleone il piccolo». E buona parte della storiografia democratica nella seconda metà dell’Ottocento nonché nella prima del Novecento non ne aveva gran stima. Ma in tempi recenti storici italiani di diversa provenienza politico culturale, da Luciano Canfora a Franco Cardini, hanno mostrato grande interesse per la figura di Napoleone III. Cardini ha anche scritto su di lui un bel libro per la Sellerio (nella collana diretta da Sergio Valzania che riprende i testi di una seguitissima trasmissione radiofonica), Napoleone III, dedicandolo a Eugenio Di Rienzo «studioso autentico di Luigi Napoleone, con la doverosa riconoscenza di un onesto dilettante».

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di Paolo Mieli, dal Corriere della Sera del 18 ottobre 2010 Logo di Corriere della Sera

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Perché questo omaggio dai toni insoliti (quantomeno nel mondo degli storici)? Per il fatto che quando è uscito il libro di Cardini stava per essere pubblicato (e adesso lo è, per i tipi della Salerno editrice, nella collana «profili» fondata da Luigi Firpo e diretta da Giuseppe Galasso) un poderoso, accurato volume di Di Rienzo – anche qui il titolo è Napoleone III (pagine 720, euro 30) – che può essere considerato il primo esauriente studio italiano sulla figura di quel «doppio nipote», protagonista del Secondo Impero francese.
«Doppio nipote» dal momento che Napoleone Bonaparte gli era ad un tempo zio – in quanto fratello di suo padre, Luigi, re d’Olanda – e nonno adottivo come marito di Giuseppina de Beauharnais, madre di sua madre, Ortensia. Un qualche apprezzamento da parte degli storici italiani nei suoi confronti non è una novità. Cinquant’anni fa, Luigi Salvatorelli in Leggenda e realtà di Napoleone (Einaudi) si spinse addirittura a valutare Napoleone III più positivamente del suo zio e nonno acquisito. «Mentre il primo regime imperiale (quello di Napoleone Bonaparte) era andato verso un assolutismo personalistico sempre più completo – scriveva Salvatorelli -, il Secondo Impero seguì un’evoluzione contraria, fino a trasformarsi nell’Impero liberale, cioè in una monarchia costituzionale vera e propria, salvo la persistente ambiguità che l’imperatore era responsabile davanti al popolo francese, a cui poteva sempre fare appello».
Ma torniamo alla formazione di Napoleone III. Luigi, suo padre, aveva sposato malvolentieri Ortensia su pressione del fratello. Fratello, il Bonaparte, che Luigi sospettava fosse anche il vero genitore del primo figlio nato dalla sua unione con Ortensia nel 1802, lo stesso anno delle nozze (il piccolo fu battezzato con il nome di Napoleone Carlo e sarebbe morto per una febbre difterica nel 1807). La coppia ebbe poi, nel 1804, un secondo figlio, Napoleone Luigi (morirà di scarlattina nel 1831) e infine, nel 1808, il protagonista del libro di Di Rienzo, che sarà battezzato con il nome Luigi Carlo Napoleone, ma verrà sempre chiamato Luigi Napoleone. Il titolo di Napoleone II sarebbe spettato all’autentico figlio del Bonaparte, nato nel 1811 dal matrimonio tra questi (che nel frattempo aveva divorziato da Giuseppina) e Maria Luisa d’Austria; figlio che aveva preso il nome di Francesco Carlo in omaggio al nonno per parte di madre, Francesco I d’Asburgo imperatore d’Austria, e a Carlo Magno. Ma anche Francesco Carlo (Napoleone II), che dopo la caduta di Napoleone aveva vissuto a Vienna ed era stato nominato duca di Reichstadt, morì prematuramente, a ventun’anni, nel 1832.
Da quel momento, primi anni Trenta, Luigi Napoleone si considerò e fu considerato l’erede della dinastia napoleonica. Ruolo che interpretò vestendo fin da giovane i panni del rivoluzionario: nel 1831 con il movimento insurrezionale che si era sviluppato tra l’Emilia, le Romagne, le Marche e l’Umbria; poi con il tentativo di provocare una rivolta in alcune piazzeforti dell’est della Francia; quindi con la ricerca di una sollevazione della Polonia; e ancora nel 1836 con il putsch (fallito) di Strasburgo. Infine, nel 1840, dopo lunghe peregrinazioni, con lo sbarco a Boulogne per innescare una rivoluzione (ennesimo fallimento). Quell’insuccesso fu considerato un po’ da tutti come la prova che Luigi Napoleone era uno sprovveduto. Anche suo padre inviò al tribunale una lettera, pubblica, in cui auspicava che il figlio fosse trattato con clemenza in quanto era un povero ragazzo raggirato da cattivi consiglieri. Il «Times», a proposito di quel ragazzo, scrisse che se almeno fosse stato ucciso, sarebbe stata «la fine più appropriata di un imbecille mistificatore». Allo sbarco a Boulogne era seguito un processo in cui il procuratore generale Emile Franck-Carré aveva definito il futuro Napoleone III «un puerile avventuriero, un giovanotto conosciuto solo per le sue sconsiderate imprese, un dittatore improvvisato, che venne a prendere terra a Boulogne, in mezzo ai suoi servitori travestiti da soldati e aveva osato impugnare la spada di Austerlitz (quella di Napoleone Bonaparte, ndr) che si era rivelata davvero troppo pesante per le sue deboli mani».
Luigi Napoleone fu condannato; tra il 1840 e il 1846 subì una detenzione (dorata) nella prigione di Ham, che lui stesso definì la «mia università» dal momento che poté tenere una vivace corrispondenza con personalità del suo tempo, studiare, scrivere articoli e opere invero non disprezzabili. «Se come golpista si era rivelato un disastro – ha scritto Cardini -, come commentatore politico e osservatore della vita civile sapeva essere informato, aggiornato, acuto». Nel ‘46 evase, si stabilì a Londra per poi rientrare a Parigi dopo la rivoluzione del 1848. E qui si vide (e lui stesso poté constatare) quanto fosse ancora forte e persistente il mito di Napoleone. A dicembre di quell’ anno il nostro fu eletto presidente della Repubblica; nel 1851 assunse poteri dittatoriali, nel 1852 fu proclamato imperatore. E qui viene la parte più avvincente del libro di Di Rienzo, quella dedicata al ruolo che Napoleone III ebbe nel processo che portò alla formazione dello Stato italiano. Ruolo ben noto che inizia con la partecipazione del Regno di Sardegna alla guerra di Crimea con la conseguente facoltà di sedere tra i vincitori della coalizione antirussa al congresso di Parigi del febbraio-marzo 1856, prosegue con i colloqui di Plombières tra l’imperatore e Cavour (1858), sfocia nella guerra franco-piemontese contro l’Austria (1859), ma si infrange contro il trattato di Villafranca, in virtù del quale la Francia, incassate Nizza e la Savoia, interrompeva il conflitto dopo che era stata «liberata» solo la Lombardia e non anche il Veneto come dagli accordi di Plombières.
Fu un duro colpo. Al punto che i patrioti dell’epoca paragonarono il trattato di Villafranca al «tradimento» di Campoformio con il quale nel 1797 Napoleone Bonaparte aveva interrotto la sua campagna in Italia tenendo Milano ma lasciando, anche quella volta, Venezia all’ Austria. E tutti quelli che avevano a cuore la causa dell’Italia unita (almeno quella settentrionale) reagirono con identica indignazione. Ma, come già osservò Rosario Romeo nel terzo volume di Cavour e il suo tempo (Laterza), «se Villafranca non realizzava tutto il programma di Plombières, essa segnava per l’Austria la più grave disfatta che avesse mai subito sulla questione italiana: così grave da mutare interamente i termini del problema quali erano stati dal 1815 in poi». E se Cavour in quei giorni di luglio non riuscì a rendersene conto, «ciò si dovette», sempre secondo Romeo, «in parte a un dato esistenziale proprio della condizione umana, e in parte alla sua fragilità temperamentale, che nei momenti di maggiore tensione gli faceva perdere il controllo dei dati oggettivi della situazione e il dominio di se stesso: senza tuttavia privarlo nella più parte dei casi della istintiva capacità di prendere le decisioni politicamente più opportune». Come furono proprio le dimissioni.
Tra Vittorio Emanuele e Cavour si era creato in quei giorni un clima di crescente, reciproca insofferenza. Il conte era persuaso della necessità di sottrarre al re ogni influenza sull’ andamento delle operazioni militari. Dopo la battaglia di Solferino disse esplicitamente a La Marmora che bisognava esautorare del tutto il sovrano. Ma, come ha ben ricostruito Adriano Viarengo nel suo recente Cavour (Salerno editrice), forte era anche la determinazione del re sabaudo – in ciò aizzato da Urbano Rattazzi – a liberarsi una volta per tutte del suo ingombrante primo ministro che «si era anche sforzato di mettere in cattiva luce presso l’imperatore francese». Ecco come Costantino Nigra, braccio destro del primo ministro del Piemonte nonché suo ambasciatore a Parigi, ricorda il momento in cui, al cospetto di Vittorio Emanuele, fece conoscere a Cavour il preliminare dell’ accordo di Villafranca. «Cavour lo lesse, però man mano che andava innanzi nella lettura gli si accendeva il volto e cresceva l’orgasmo. Quando poi giunse a quel punto dove è detto che tutti i sovrani d’Italia avrebbero formato una Lega presieduta dal Papa, allora non si contenne più e proruppe altamente dicendo al re di sperar bene che non avrebbe apposto la sua firma a quel trattato ignominioso. E qui dette sfogo lungamente all’animo esacerbato bollando con parole roventi la condotta dell’imperatore: pregò il re che non se ne rendesse solidale perché era un tradimento verso le popolazioni che, insorgendo, avevano avuto fiducia in lui». Il colloquio fu a tal punto aspro che il re accolse le sue dimissioni con sollievo e poco tempo dopo, parlando di Cavour con il colonnello inglese George Cadogan, disse: «Il suo tempo è finito».
Non era vero: di lì a breve Cavour sarebbe tornato alla guida del governo, postazione dalla quale nel biennio ‘60/61 avrebbe sorvegliato il travaglio che avrebbe portato alla nascita dello Stato italiano. Ma neanche Cavour immaginava che nel volger di pochi mesi sarebbe tornato sul ponte di comando. Ne è prova il fatto che proprio nei giorni di Villafranca passò da stati di esaltazione allo sprofondo della depressione. Disse a Lajos Kossuth: «Mi farò cospiratore! Mi farò rivoluzionario! Ma questo trattato non si applicherà mai… Mai! Mai!». Scrisse a Bianca Ronzani: «Mi ritrovo sul lago, sfinito e sfiduciato. Non più sorretto dalla speranza di riuscire ad impresa più gloriosa e più nobile di quante siensi tentate mai. Non più eccitato dalla lotta e dalla necessità di vincere: sento un tale spossamento che mi rende avvertito essere pur troppo per me cominciata la vecchiaia; vecchiaia prematura, cagionata da dolori morali d’impareggiabile amarezza». Cavour in quel momento aveva solo 49 anni e comunque il processo di formazione dell’Italia unita aveva preso l’avvio.
Ma – riconosciuto a Cavour quel che è di Cavour – l’ uomo che rese possibile l’unificazione italiana fu in tutto e per tutto Napoleone III. E questo libro di Di Rienzo ha il grande pregio di restituire a Napoleone III i meriti che non possono essergli disconosciuti. Innanzitutto in virtù dei problemi che – per consentirci di «fare l’Italia» – l’imperatore dei francesi dovette affrontare nel suo Paese. Al largo entusiasmo popolare per la guerra d’Italia manifestatosi tra i quadri del bonapartismo di sinistra, negli ambienti operai, nei circoli repubblicani e addirittura in quelli dell’opposizione emigrata, si contrapponeva «una reazione eguale e contraria in altri e più estesi settori della società». Quali? Le masse rurali dei dipartimenti di confine esposte al pericolo di una reazione della Prussia, i vertici militari, la grande banca rappresentata dal barone Rothschild, buona parte delle Camere di Commercio, la totalità dell’opinione pubblica cattolica (quel conflitto segnò una grave incrinatura dell’alleanza tra Pio IX e il regime bonapartista), i seguaci della dinastia orleanista e alcuni importanti membri del governo tra i quali il ministro degli Esteri Walewski. La guerra contro l’Austria iniziò il 3 maggio del ‘59, il 4 giugno fu la vittoria di Magenta, il 24 giugno fu quella risolutiva di Solferino e poco dopo Villafranca.
Qui furono i seguaci di Mazzini ad accusare di tradimento l’ imperatore dei francesi. Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio, confessò in quell’ occasione di detestare «Napoleone cagion di tanti mali al nostro paese e vero ostacolo da superare per la completa conquista dell’unità nazionale». E nella sinistra italiana da allora in poi si produsse una crescente ostilità nei confronti della Francia (la «gallofobia democratica») che sarebbe andata crescendo nei decenni successivi. E pensare che in quei giorni, dopo Solferino, il principe Richard di Metternich inviava dal quartier generale di Verona al ministro degli Esteri austriaco una lettera nella quale si sosteneva che «nulla era più possibile fare in Italia» e che «soltanto un miracolo ci può ancora aiutare, ma contro il nemico tanto più potente, inebriato dalla sua vittoria, che riceve ogni giorno nuovi rinforzi, che ci sta accerchiando e che ci schiaccerà» era difficile sperare anche nel soccorso divino.
In effetti è lo stesso Di Rienzo a riconoscere che dopo le sconfitte austriache «la continuazione della campagna in Italia offriva ottime possibilità di riuscita nonostante la scarsa prova dell’ alleato piemontese». Ma questo è un punto da non sottovalutare: il Paese di Napoleone III era rimasto assai turbato dall’ imprevista entità dello spargimento di sangue francese e dall’ apporto assai modesto dei militari di Cavour. Secondo elemento importante fu l’uscita della Prussia dalla neutralità. Tutto accadde dopo la vittoria di Magenta, quando «a Berlino iniziò a prevalere il partito della guerra», in considerazione del fatto che, con l’avvicinarsi dei franco-sardi alla linea del Mincio, non era più procrastinabile un atteggiamento di maggior decisione: l’11 giugno venne dunque decisa dalla Prussia la mobilitazione di sei corpi d’armata, mobilitazione che comportava il richiamo della riserva orientale per la formazione di un contingente da collocare sul Reno in posizione ostile verso i confini francesi. A questo punto Walewski (siamo tra il 20 e il 23 giugno) chiese all’imperatore l’immediato concentramento di una grossa formazione francese sul Reno avvertendolo che, se avesse insistito con la guerra in Italia, il congiungimento tra austriaci e prussiani sarebbe stato inevitabile. E per la Francia sarebbero stati dolori.
Racconterà Napoleone III otto anni dopo, nel 1867, che la Francia non era riuscita a schierare in Italia più di 150 mila uomini e che, scrisse, «se la Provvidenza non mi fosse venuta in aiuto, donandomi il frutto della vittoria, io non avrei potuto disporre di una seconda linea a difesa dei nostri confini». Spiega Di Rienzo che la Francia del Secondo Impero scontava un notevole decremento demografico, la politica economica tendeva a immobilizzare la maggior parte delle risorse per la realizzazione di grandi opere di carattere civile; e a peggiorare il quadro va tenuta in conto la difficoltà «di catturare il consenso del ceto finanziario, agrario, manifatturiero, sempre restio a un incremento delle spese militari per paura di un innalzamento dei carichi fiscali; la volontà dell’imperatore di assicurarsi il favore delle masse contadine, tendenzialmente ostili a un aumento dei gravami della leva. Il che aveva prodotto un grave depotenziamento della sua macchina bellica, in particolare per quello che riguardava il numero di uomini da schierare sul campo nonché la mancata modernizzazione degli armamenti, del sistema dei trasporti e della logistica. Così che aveva ragione Walewski nel sostenere che, in caso di conflitto con le forze di tutto il mondo germanico, la Francia sarebbe stata di sicuro soccombente».
Villafranca fu dunque molto diversa da Campoformio. Perché a quel punto, come già scrisse Romeo, era accaduta la cosa fondamentale: «Per la prima volta, dopo il 1815, l’Europa dei trattati era stata sconfitta dall’Europa delle nazionalità». E, per quel che riguarda Giuseppe Mazzini, il quale sosteneva che lo stesso risultato (magari di più ampie proporzioni) potesse essere raggiunto nel 1859 con un’insurrezione popolare, si trattava di illusioni. Quanto poi al fatto che Vittorio Emanuele II potesse in quei frangenti decidere di continuare la guerra da solo – ha scritto giustamente Domenico Fisichella nel recente Il miracolo del Risorgimento. La formazione dell’Italia unita (Carocci) – sarebbe stata una «follia». Il libro di Di Rienzo dimostra in maniera definitiva come, senza lo sforzo militare francese, l’avventura che portò all’ unità d’ Italia non avrebbe potuto neanche cominciare. E come la figura dell’erede del Bonaparte meriti la massima considerazione dal momento che, per correre quell’avventura, l’ imperatore dei francesi prese su di sé rischi che nessun capo di una nazione nell’Ottocento si sarebbe mai addossato. Tanto meno per favorire l’indipendenza di un altro Stato.

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Inserito su www.storiainrete.com il 28 ottobre 2010 tramite Nuova Rivista Storica

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