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“Non c’é Italia senza Tricolore e senza Inno di Mameli”

Nel portafogli custodisce il brevetto numero 42 di paracadutista della Folgore, conseguito nel 1941, che mostra con orgoglio; nella mente conserva i ricordi della seconda guerra mondiale e, in particolare, della battaglia di El Alamein, durante la quale fu catturato dai soldati inglesi; nel cuore porta impresso un simbolo, il tricolore. Sul lungomare di San Foca di Melendugno, a pochi chilometri da Lecce, il maresciallo ordinario Mario Vetrugno, classe 1917, racconta le dolorose vicende di guerra, e sembra un libro di storia vivente.

di Enzo Quaratino da www.ansa.it del 17 agosto 2009

Ha un improvviso sussulto, il novantaduenne maresciallo, quando qualcuno gli dice che oggi c’é chi mette in discussione quella bandiera e l’inno nazionale. “Queste persone – dice – non sanno che noi italiani sui campi di battaglia siamo stati davvero ‘Fratelli d’Italia’ e abbiamo combattuto per il tricolore, abbiamo messo i nostri cuori nel tricolore ed abbiamo pianto sul tricolore. Bandiera e inno di Mameli fanno parte della nostra identità: non c’é Italia senza tricolore e senza inno di Mameli”. E ai giovani raccomanda: “Amate il tricolore e cantate l’inno”. A sostegno della sua tesi, il maresciallo Vetrugno sceglie nel ricco album dei ricordi la data del 30 aprile 1941: giovane paracadutista, si lanciò con un manipolo di colleghi della Folgore su Cefalonia.

L’Italia occupò l’isola, costringendo le altre forze presenti sul campo a firmare la resa. “Quando prendemmo Argostoli, capoluogo di Cefalonia – racconta – io ed altri tre paracadutisti della Folgore ci recammo subito al palazzo della prefettura. Dal pennone tolsi la bandiera greca, presi dalla mia giubba il tricolore e lo issai. Uno di noi era trombettista, suonò l’attenti ed in quattro, commossi, rendemmo onore alla nostra bandiera”. Il racconto si fa drammatico quando affiora il ricordo della battaglia di El Alamein: dei circa cinquemila parà della Folgore, si salvarono in poco più di trecento. “Ma alla resa – dice, con orgoglio, Vetrugno – i ragazzi ebbero l’onore delle armi”.

“La sera del 3 novembre 1942 – racconta – mi fu affidato il comando di cinque uomini. Mentre le nostre truppe rimasero in un luogo più arretrato, chiamato caposaldo, noi cinque raggiungemmo un punto avanzato di osservazione per controllare i movimenti nemici in una sacca dell’area di El Alamein. Per due giorni non arrivò il rancio e sospettammo che alle nostre spalle potesse essere accaduto qualcosa di grave. In realtà, le nostre truppe, temendo di essere accerchiate dal nemico, si erano spostate altrove, ma avevano già avuto perdite gravissime. Provammo a raggiungere i nostri compagni, poi ognuno proseguì per la sua strada tentando di evitare la morte e la cattura. Io caddi ben presto nelle mani degli inglesi: passai per tre campi di concentramento, evasi tre volte, tre volte fui ripreso. Sul punto di essere trasferito in India, fui trattenuto ad Alessandria d’Egitto perché sapevo guidare i mezzi militari. Finii in Libia e, infine, nel 1946 fui rimpatriato a Napoli. Ogni giorno, al risveglio, mi passano per la mente i cadaveri di tanti colleghi che ho visto sterminati dal nemico. Ognuno aveva nella giubba il tricolore, e tante bandiere italiane si sono macchiate del sangue dei ‘folgorini'”.

Nonostante si siano “perduti oggi tanti valori”, il maresciallo Vetrugno resta convinto che l’Italia sia una grande nazione. Ma – sottolinea – “guai a disperdere la nostra identità: per questo ai giovani dico: Patria, amore, famiglia. Amate la Patria, amate il prossimo, amate la famiglia. Se farete così, sulle orme dei vostri padri, il popolo italiano resterà sempre un grande popolo”.

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Inserito su www.storiainrete.com il 18 agosto 2009

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