Home Stampa italiana 1 Perché ricordare i 14 patrioti del Bloody Sunday 49 anni dopo

Perché ricordare i 14 patrioti del Bloody Sunday 49 anni dopo

“Bloody Sunday” rievoca i fatti di sangue del 30 gennaio 1972 a Derry in Irlanda del Nord: soldati del 1º battaglione del reggimento paracadutisti dell’esercito britannico spararono contro una folla di manifestanti colpendone 26. I morti furono alla fine 14

di Lorenzo Proietti dal Barbadillo del 30 Gennaio 2021

Dividi e comanda

Il “Bloody Sunday”, 49 anni dopo. Si dice spesso che nulla come il tempo sappia aggiustare le cose, che la memoria (o lo studio della storia, nella versione più “colta del detto”) sia il miglior antidoto affinché gli episodi non si ripetano; in realtà, neanche troppo di rado, avviene puntualmente il contrario, dapprima come tragedia, poi come farsa. Ripensando a quella grande polveriera storico-politica e sociale che furono gli anni ’60 e ’70, ai sogni traditi, alle istanze di cambiamento mai seriamente supportate, è abbastanza iconico come alcuni luoghi, soltanto a nominarli, riesumino delle infinite scie di sangue: Derry, Beirut, Belfast, il Sud Africa, il Nicaragua, la Palestina, il Sud America, lotte di popoli, istanze nazionali e sociali amalgamate radicalmente, fortemente ancorate nelle tradizioni anti-imperialiste e religiose.

Ecco, già che ci siamo, rimaniamoci in Irlanda del Nord, nazione costitutiva del Regno Unito, una delle tante “bettole dell’imperialismo inglese”, costruita nel 1920 tenendo assieme le sei contee (delle nove totali) che nella regione storica dell’Ulster erano a maggioranza protestante: i britannici così si tenevano i rigogliosi cantieri navali di Belfast e tenevano saldo il controllo, d’altronde in quel tempo erano ancora la talassocrazia per eccellenza, sui bracci di mare afferenti al Mar d’Irlanda, accesso per l’Atlantico; agli irlandesi, già in ginocchio dalla “Great Famine” del 1845-1848, non rimanevano che gli impieghi più umili, se non direttamente l’emigrazione, preferibilmente verso la sponda est degli Stati Uniti (New York o Boston soprattutto).

L’Irlanda del Nord, oltre alle bellezze naturali e paesaggistiche, alle tinte oniriche, è soprattutto casette basse dai mattoncini rossastri, sotto un cielo plumbeo, annerito dalle ciminiere, cupo in uno scenario soltanto l’Atlantico Settentrionale sa regalare; con il tempo però il teatro sottostante doveva trasformarsi in un immenso ghetto, nel quale i cittadini britannici di nazionalità irlandese, costretti all’emarginazione sociale, venivano spesso esclusi dalle graduatorie per accedere alle case popolari, non potendo neanche contare sulla possibilità di una qualche rappresentanza nella locale assemblea nordirlandese (dominata fin dal 1922 dal Partito Unionista dell’Ulster), visto che i collegi elettorali erano disegnati così da sfavorire la minoranza cattolica anche in quei quartieri nei quali essi costituivano una maggioranza decisa (espediente noto come gerrymandering).

I “cattolici” (le virgolette andrebbero sempre rimarcate, visto che la categorizzazione attraverso la religione appare una banalizzazione clamorosa che svia dalla realtà dei fatti, basata sulla sperequazione socio-economica), più poveri, trovavano enormi difficoltà, in quanto era prevista la franchigia elettorale, ossia nella prassi il suffragio era censitario: per avere il diritto di voto, si doveva essere proprietari di almeno una casa, o perlomeno pagare un affitto, ed avere un lavoro; i prezzi proibitivi degli immobili che portavano moltissimi giovani a vivere a lungo con i genitori e la disoccupazione, che in alcuni quartieri cattolici raggiungeva l’80 %, erano solo i principali sintomi dell’oppressione.

Infine, nel sistema elettorale aveva un ruolo importantissimo il company vote, che conferiva un voto plurimo a chi fosse proprietario d’azienda; non è difficile capire da chi fosse egemonizzata la struttura economica in quel contesto, mentre la morsa su quelle sei contee (dove veniva istituzionalizzato un perfetto caso di apartheid “all’europea”) doveva divenire ancora più ferrea quando le altre ventisei contee dell’Isola ottenevano la definitiva indipendenza da Londra nel 1949 (affrancandosi anche dallo status di “Dominion”), dando vita alla Repubblica d’Irlanda (o Eire).

È su questo sostrato che tenta di affermarsi, la religione come motore sociale e nazionale, l’identità come strumento politico, salvo puntualmente ogni flebile gemito di protesta venir pressoché stroncato sul nascere, giacché fin dal 1922, sulla scia delle precedenti guerre civili che avevano contraddistinto l’Isola d’Irlanda, vigeva lo Special Power Acts (SPA) (attuato fino al 1972), che dava ai soldati e alla polizia massimi poteri: si poteva arrestare senza processo, perquisire senza mandato, venivano eliminate le libertà personali e qualsivoglia forma di privacy, venivano ammesse la tortura e la flagellazione; non fosse abbastanza, in caso di timori per l’ordine pubblico, si potevano vietare cortei e feste e, in ultimo, si poteva rifiutare il ricorso alla Corte di Giustizia o all’ Habeas Corpus.

Le battaglie per i diritti civili

Il dramma esplose definitivamente in tutta la sua gravità sul finire degli anni ’60, dopo che alcune timide migliorie erano arrivate sulla scia della legislazione sociale adottata da Londra nell’immediato dopo-guerra e dopo che il primo quinquennio di quel periodo aveva portato importanti novità: in quegli anni infatti, le marce d’oltreoceano per i diritti civili del reverendo Martin Luther King, unite all’attivismo di Malcom X, vennero viste anche nelle sei contee con un senso di grande speranza; c’era, se non altro, la convinzione che provando a fare qualcosa di simile si sarebbe potuto mettere fine agli arbitri continui commessi dalle autorità.

La mobilitazione cattolica per i diritti civili nelle sei contee

Il primo passo verso una lotta pacifica, assolutamente non settaria e apartitica, vide nella nascita del NICRA (Northern Ireland Civil Rights Association, formato il 29 gennaio 1967) il primo movimento organizzato, cui fece seguito la costituzione della Pd (People’s democracy) nel 1968.

L’eterogeneità di questi movimenti, portava in piazza persone della più diversa estrazione sociale e culturale: v’era persino chi, non allineato alla componente cattolica-nazionalista (indipendentista), chiedeva “solamente” il ritorno dello stato di diritto, giustizia e democrazia, sempre all’interno della giurisdizione inglese e fermo restando le richieste volte a sopprimere lo Special Power Acts, un voto per testa e lo scioglimento delle B-Specials, ovvero sia una forza di polizia part-time che reclutava tra gli esponenti dell’Ordine di Orange (una società lealista di stampo massonico, nata nel ‘700) e che agiva con metodi da “macelleria messicana”.

Le prime marce, avvenute nel biennio 1967-1968 però, avevano tutte la stessa tragica, sconcertante conclusione: le cariche della famigerata polizia nord irlandese RUC (Royal Ulster Constabulary) o gli attacchi portati da estremisti protestanti, sfociavano in terrificanti violenze.

Il 1969 fu un anno ancora peggiore: tra il 12 e il 14 agosto nel quartiere di Bogside a Derry (Londonderry per gli unionisti), città a maggioranza cattolica, ci fu un vero e proprio pogrom orchestrato dai lealisti, con un tragico bilancio di 500 case incendiate, 1500 sfollati e 9 morti; per altro, piccola ma eminente nota a margine, fu proprio in quel 1969 che avvenne la scissione nella vecchia IRA (Esercito Repubblicano Irlandese), favorevole all’unificazione dell’Irlanda: da una parte nacquero i Provisionals (PIRA o Provos) che da subito si eressero a difensori della comunità cattolica oppressa e che saranno ampiamente protagonisti fino agli anni ‘90, assieme allo Sinn Féin (la loro ala politica), mentre, dall’altra, si formarono gli Officials, meno intransigenti e più socialisti, accusati dai primi di non difendere fino in fondo la loro gente.

Convenzionalmente, il 1969 di Bogside viene considerato come l’inizio dei “Troubles”, eufemismo col quale si è soliti definire la guerra civile “a bassa intensità” che insanguinò le strade dell’Irlanda del Nord (ma con appendici anche al sud e in Gran Bretagna) fino al 1998, facendo oltre tremila vittime e comunemente passata alla storia come lo scontro tra “i cattolici nazionalisti indipendentisti e i protestanti unionisti”, in uno degli ultimi colpi di coda nel secolare dominio coloniale e imperialistico della monarchia inglese.

Il 9 agosto del 1971 intanto, viene ristabilito l’internamento senza processo, scatenando immediati rastrellamenti: vengono subito arrestate 342 persone, tutti esponenti nazionalisti (soltanto 56 appartenenti all’IRA), tra i quali 116 sono rilasciati nel giro di 48 ore, mentre per gli altri scatta il regime carcerario duro nei diversi istituti preventivi a loro destinati, generando un susseguirsi di scontri, arresti, morti ammazzati che avrebbero accompagnato i successivi quattro mesi e mezzo, fino al giorno del non ritorno, fino a quel 30 gennaio 1972.

“I can’t believe the news today”

Fa impressione che una terra quale quella d’Irlanda, che pure è irrorata del sangue delle migliaia di patrioti che per renderla grande sono morti in suo nome, tenga impresse nella memoria, così nitide, tre istantanee, tre episodi, entrambi avvenuti di domenica, giorno del riposo, il giorno più importante per i cattolici che in tale giorno assistono alla messa, ritrovandosi in comunità nella parrocchia; di Bloody Sundays infatti, gli irlandesi erano stati testimoni nel 1920 e nel 1921: Il 21 novembre del 1920, in risposta ad un attacco della divisione IRA di Michael Collins, i reparti dell’esercito inglese erano entrati in campo durante una partita allo stadio di Dublino, sparando sul pubblico e uccidendo quattordici persone, mentre il 10 luglio 1921, per rappresaglia ad un’imboscata che l’IRA aveva teso alla polizia, i lealisti avevano attaccato l’enclave cattolica di Belfast, dando fuoco a case e attività commerciali, rimanendo contestualmente uccise diciassette persone soltanto in quel giorno, mentre gli scontri della successiva settimana avrebbero lasciato sul campo almeno altre 11 persone.

Certo, per quanto quelle ferite rimanessero ben impresse nell’anima di chi aveva potuto anche solo indirettamente assisterne, rimanevano dei fatti lontani; eppure, nessuno, quel 30 gennaio poteva immaginare cosa mai sarebbe potuto avvenire: numeri alla mano, il 1972 rimarrà l’anno con più vittime (472) del periodo in cui PIRA ed esercito britannico ingaggiavano scontri a fuoco con cadenza quasi giornaliera nelle strade di Belfast e in quelle di Derry.

In ogni caso, in quella fredda domenica di fine gennaio doveva tenersi una marcia a Derry, l’ennesimo tentativo pacifico, per chiedere la revoca dell’internamento senza processo e questa volta era stato addirittura imposto all’IRA, che aveva accettato suo malgrado, di allontanarsi e non prender parte al corteo: sono le ore 15:00 locali e il corteo parte dalle strade del Bogside, in una Derry che più grigia non poteva mostrarsi, organizzata come una prima linea di guerra, presidiata dalle truppe britanniche, tra le quali per l’occasione il governo di Londra, guidato all’epoca da Edward Hearth, ha persino “scomodato” il Primo Battaglione del Reggimento Paracadutati dell’Esercito, così da tenere sotto tiro tutta la questione.

La marcia prosegue senza grossi intoppi per quasi un’oretta, proprio quando, alle 15.55, si sentono, distintamente, dei colpi: sul momento c’è confusione, c’è chi subito cerca di mettersi al riparo, chiedendosi cosa stesse succedendo, visto che di solito l’IRA, pur nell’efferatezza dei suoi ingiustificabili attentati che coinvolgevano purtroppo anche i civili, almeno in teoria si concentrava su obiettivi di natura economica e strategica.

La natura delle cose fu ben presto chiara: ad aprire il fuoco erano stati proprio loro, i Paracadutisti, che ricevuto l’ordine da Londra avevano cominciato a sparare sulla folla inerme che per altro, come appurato, era ampiamente disarmata, colpendo ventisei civili e ammazzandone tredici sul colpo; Gerald Donaghy aveva solo diciassette anni il giorno in cui morì, mentre stava correndo verso il Glenfada Park di Derry, per sfuggire dai colpi dell’esercito inglese, non riuscendoci: una pallottola lo raggiunse allo stomaco uccidendolo all’istante, in uno spoglio parcheggio dei Rossville Flats (un complesso di palazzi di edilizia popolare).

Assieme a lui rimasero per terra altre dodici persone (mentre un ferito, John Johnston, morirà alcuni mesi dopo per le ferite riportate, divenendo la quattordicesima vittima, delle quali nove tra i diciassette e i ventidue anni), colpite a morte durante quella che doveva essere una manifestazione pacifica, ma che sarebbe passata alla storia come la seconda Bloody Sunday, la seconda maledetta domenica irlandese (a onor di cronaca sarebbe la terza ma negli almanacchi quella del 1921 è sempre troppe poche volte citata).

Nell’iconografia collettiva è ormai indelebile l’immagine del Vescovo di Derry Edward Daly, con in mano un fazzoletto bianco sporco di sangue in mano (che doveva evidentemente essere una sorta di simbolo di “resa”), mentre tenta di mettere in salvo il diciassettenne John Duddy, immagine ertasi ad icona senza tempo.

Tra questi martiri, l’episodio più assurdo, se possa essere in tal senso stilata una sorta di gerarchia, è per l’appunto quello di John Johnston, cinquantanove anni (la meno giovane delle vittime), colpito alla gamba e alla spalla sinistra, addirittura quindici minuti prima che iniziasse la sparatoria.

Ciò che però è appunto assurdo ricordare, è che Johnston non stava prendendo parte alla marcia, limitandosi ad andare a trovare un amico a Glenfada Park; morirà 4 quattro mesi e mezzo più tardi, ufficialmente per le ferite riportate quel giorno, l’unico a non morire immediatamente quel maledetto giorno.

Nonostante la guerra civile tra unionisti e repubblicani abbia visto singole stragi compiute da entrambe le parti, con una maggiore numero di morti in termini assoluti per singolo episodio (Dublino 1974, Birmingham 1974, Omagh 1998), l’efferatezza e la “gratuità” (termine orribile ma che forse sottolinea al meglio l’insensatezza di una repressione assolutamente settaria) dei gesti compiuti dalle forze dell’ordine verso pacifici civili, fanno della Bloody Sunday il simbolo dell’inutilità e del male di questo conflitto; e infatti, prevedibilmente, questa data sarebbe divenuta uno spartiacque, visto che a quel punto la lotta era appena cominciata, senza più veli, radicalizzandosi da lì in avanti la violenza, la quale avrebbe visto un numero sempre maggiore di giovani entrar a far parte delle formazioni paramilitari.

Arriveranno altri scontri, nuove misure repressive, le bombe, la Thatcher e il suo disconoscimento nei confronti dei prigionieri (politici) nazionalisti, declassati a semplici criminali comuni ma anche Bobby Sands e i gloriosi scioperi della fame nel carcere di Long Kesh, con i patrioti irlandesi lasciati a morire come mosche per tutto il 1981.

Fortunatamente arriverà anche un timido e formale processo di pace, che culminerà nell’Accordo del Venerdì Santo del 1998, anche se la strada verso la riconciliazione socio-economica appare ancora terribilmente in salita, sicché ancora oggi le differenze (persino le discriminazioni) si possono notare ad occhio nudo, anche solo passeggiando per quelle strade nel Nord dell’Isola dello Smeraldo; purtroppo, nemmeno la successiva istruttoria, organizzata faticosamente dal Governo britannico, e che ha portato alla redazione nel 2010 di un documento di oltre mille pagine, non ha saputo chiarire fino in fondo i dettagli più inquietanti della vicenda.

Ad perpetuam rei memoriam

Di quella domenica di sangue, entrata così prepotentemente nell’immaginario collettivo grazie al lavoro del cinema e della musica, oggi si può parlare con maggiore obiettività anche in ambienti dove nel passato questo non era possibile, mentre di più si dovrebbe fare anche nelle scuole nostrane, visto che frequentemente nei programmi di storia o nelle giornate di commorazione, si glissa su vere e proprie tragedie avvenute a poche ore di volo da casa nostra, tragedie che non trovano nei libri uno spazio di approfondimento meritevole.

A noi, insomma, il compito di ricordare questi quattordici eroi, martiri loro malgrado, caduti per una causa più grande di loro.

A futura memoria.

@barbadilloit

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