HomeIn primo piano“Quei 36 milioni di cinesi morti per gli errori di Mao”

“Quei 36 milioni di cinesi morti per gli errori di Mao”

Nel numero dedicato alla morte del Grande Condottiero, l’11 settembre del 1976 l’«Economist» scrive: «Mao deve essere accettato come uno dei grandi vincitori della storia. Per aver elaborato, contro le prescrizioni di Marx, una strategia rivoluzionaria incentrata sui contadini, che permise al Partito comunista di conquistare il potere a partire dalle campagne, e per aver diretto la trasformazione della Cina da società feudale, distrutta dalla guerra e dissanguata dalla corruzione, a Stato egualitario e unificato, nel quale nessuno muore di fame».

Alessandro Barbera per “la Stampa” dell’11 maggio 2014 

Nel 1976 all’«Economist» non sanno ancora che qualcuno in Cina ha iniziato a raccogliere il materiale che diversi anni dopo incrinerà l’aura che fino a quel momento era penetrata fin nei più insospettabili circoli. A quel tempo Yang Jisheng ha 36 anni, è iscritto al Partito ed è un «orgoglioso giornalista» dell’agenzia di Stato Xinhua. Ma la convinta adesione all’Utopia non gli impedisce di scavare attorno a quel che accadde fra il 1958 e il 1962, gli anni della grande carestia in cui suo padre se ne va, apparentemente per una tragica volontà della natura.

«Era un giorno di primavera del 1959. Avevo 18 anni, ero studente e vivevo a pochi chilometri dal mio villaggio. Non c’era molto da mangiare, ma come immagino accadesse nelle scuole di Hitler e Mussolini una ciotola di riso me la davano tutti i giorni». Un’amica lo avverte di tornare subito a casa. Quando entra in giardino trova l’olmo con la corteccia strappata e diversi buchi attorno alle radici.

Yang Xiushen è in casa, riverso a terra, in fin di vita. «Era pelle ossa, in un modo che solo allora capii cosa volesse significare». Il ragazzo non è sorpreso. «Mio padre stava male da tempo, faceva di tutto per negarlo. Ogni volta che tornavo portavo un po’ della mia razione. Lui mi respingeva, non voleva mi privassi del cibo».

Yang Jisheng racconta la sua storia in una calda giornata del maggio romano al tavolino di un ristorante nei pressi di Piazza di Spagna. È in Italia su iniziativa del «Bruno Leoni», l’istituto di studi economici per il quale terrà oggi a Torino l’annuale “discorso”. Mentre parla la realtà attorno a lui è straniante anche per chi ascolta.

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Il padre di Yang se ne va in tre giorni, ma per almeno dieci anni, fino alla fine delle sue ricerche, fino ai fatti di piazza Tiananmen, Yang non avrà piena consapevolezza di quali fossero le vere ragioni della Grande Carestia, dei suoi 36 milioni di morti in quattro anni, del perché masse di cinesi fossero finite in una condizione tale da spingere i più sfortunati – lo ha ricostruito lui stesso – a cibarsi di escrementi di uccelli o delle carni dei propri defunti.

«Avrei voluto conoscere sin da giovane il senso profondo delle parole “shi shi qiu shi”», un aforisma che in cinese significa «cercare la verità attraverso i fatti» e che fino a quel momento Yang aveva sentito pronunciare retoricamente solo dagli esponenti del regime. «Io non ho mai fatto politica», spiega Yang. Per questo non lo si può definire un dissidente, anche se ben tre ministri dell’informazione lo hanno criticato – «un record» – e i suoi libri si possono comprare solo ad Hong Kong. «Talvolta ho temuto di essere incarcerato, ma se non è accaduto significa che le cose nel mio Paese oggi vanno meglio. Non bene, ma meglio».

Il suo enorme lavoro (1.200 pagine nell’edizione in cinese, 700 in inglese) è stato pubblicato solo nel 2008. Si intitola «Tombstone». Una lapide «per mio padre, per i milioni di morti, per gli errori della Cina di Mao».

Yang sotterra con dovizia di dettagli il fallimento della pianificazione economica, della Cina che aveva concesso – e poi confiscato – al padre un fazzoletto di terra da coltivare, in cui era negata qualunque iniziativa privata, competizione, entusiasmo personale e creatività, nella quale si negava l’esistenza dei prezzi, ciò che avrebbe spinto qualcuno a portare il cibo fino al villaggio di suo padre, evitandogli quella morte orribile. La collettivizzazione dell’economia era arrivata fino alle cucine, dove la gente non aveva nemmeno la libertà di decidere quando e cosa mangiare.

Oggi Yang non ha dubbi nel sostenere che «l’unica uguaglianza alla quale tendere è quella delle opportunità». Non conosce Thomas Picketty, è interessato a capire come mai in Occidente ci sia così tanta domanda di uguaglianza fra le persone, sottolinea quanto il confine fra ricerca dell’uguaglianza e arbitrio sia labile.

«Quando eravamo tutti uguali, non si può dire fossi realmente infelice, ma il problema era che non avevo la più pallida idea di quale fosse la differenza fra essere felice o infelice. Ora lo so, e l’ho spiegata ai cinesi con una formula matematica». Prende un pezzo di carta e scrive: «Il tasso di felicità è dato dal rapporto fra la qualità della vita attuale e quella passata. Alla formula completa manca solo il coefficiente: la quantità di informazioni a disposizione». L’orgoglio del giornalista ha attraversato indenne la storia.

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