HomeIn primo pianoSavoia, l’adesione al Fascismo non cancella i meriti della dinastia

Savoia, l’adesione al Fascismo non cancella i meriti della dinastia

Vittorio Emanuele III di SavoiaIl destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso dal referendum che nel 1946 instaurò in Italia la Repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale, quali che ne fossero le prospettive di un ritorno in auge. L’esilio di Umberto II fu dignitoso, in Portogallo, dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto — dalle vicende amorose di Beatrice a quelle di vario genere e di assai dubbia qualità dell’erede Vittorio Emanuele, per non parlare del figlio di quest’ultimo, Emanuele Filiberto, con la sua notorietà televisiva — non è stato così.

di Giuseppe Galasso dal Corriere della Sera del 21 agosto 2016
Luigi Salvatorelli, «Casa Savoia nella storia d’Italia» (Edizioni di Storia e Letteratura, con un’introduzione di Gabriele Turi, pp. 126, euro 12)
Luigi Salvatorelli, «Casa Savoia nella storia d’Italia» (Edizioni di Storia e Letteratura, con un’introduzione di Gabriele Turi, pp. 126, euro 12)

Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per 6 o 7 secoli un protagonista fra gli altri della storia del Paese. In ultimo, dal 1848 in poi e fino al 1946, con l’unificazione e con la loro promozione a re d’Italia, i Savoia divennero addirittura un punto nodale della storia nazionale. Il che indusse buona parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva.
Il primo era che la storia d’Italia, in particolare dal Mille in poi, si fosse svolta all’insegna univoca ed evidente di un destino fatalmente unitario. L’unità avrebbe rappresentato la logica motrice della storia italiana, i cui vari periodi, manifestazioni e protagonisti dovevano essere rappresentati e giudicati a seconda del loro contributo alla realizzazione della fatale unità del Paese.

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Il secondo era che quale interprete del supposto destino unitario si raffigurava, fin da quando se ne può parlare, più o meno dal Mille, per l’appunto la Casa di Savoia. Annidati sulle loro rocche alpine del versante francese e di quello italiano, i conti e poi duchi di Savoia erano venuti facendosi strada nella Valle del Po, dalle Alpi al Ticino, adottando decisamente, dopo una iniziale incertezza e duplicità, la direttrice padana, e quindi italiana, della espansione alla quale miravano. Così, nel Cinquecento avevano trasferito la loro capitale da Chambery a Torino, avevano adottato l’italiano quale lingua ufficiale e diplomatica e avevano continuato la loro marcia padana in uno sforzo consapevolmente volto ad assicurare all’Italia e agli italiani l’indipendenza dagli stranieri, dominanti per secoli nella penisola. Appena poi si era parlato di «risorgimento», i Savoia se ne erano fatti portabandiera e la denominazione di «padre della patria» adottata per Vittorio Emanuele II aveva perciò sancito con un doveroso riconoscimento storico-politico la millenaria missione assolta da Casa Savoia.
Contro entrambe queste prospettive insorse nel 1944, in un opuscolo al quale non mancò un largo ascolto, Luigi Salvatorelli (Casa Savoia nella storia d’Italia, ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura, con introduzione di Gabriele Turi). Nelle sue pagine i Savoia sono rigorosamente dipinti come una dinastia di mediocri personalità, caratterizzate da un’insaziabile avidità di nuovi domini, da un mai smentito opportunismo nel cercare di soddisfarla, da una costante meschinità dei calcoli politici ispirati da un tale criterio di azione, dalla più completa indifferenza alle direzioni geografiche e a ogni possibile motivazione ideale o anche soltanto ideologica dei loro disegni espansivi. Collocati sul crinale delle Alpi, e legati all’ambito franco-borgognone, si erano concentrati sull’Italia solo perché il consolidamento della monarchia francese e la stabilizzazione della confederazione svizzera avevano drasticamente sbarrato ogni varco per un’espansione oltralpe.
Per Salvatorelli, insomma, nulla, invero, i Savoia avevano avuto a che fare con le ragioni intime e, per così dire, sorgive della storia d’Italia; con il travagliato processo di maturazione ideale e culturale, prima ancora che politico, al quale diamo il nome di Risorgimento, e nel quale essa si era inserita solo in ultimo, secondo le sue tradizioni di opportunismo, ma senza un’adesione intima o un impulso proprio e genuino. Molte delle deficienze e delle meschinità della storia dello Stato unitario nato dal Risorgimento erano dipese da questo rapporto surrettizio fra la nuova Italia e la vecchia dinastia. La finale acquiescenza, solidarietà e complicità col fascismo, che aveva sovvertito il regime liberale e calpestato le già faticate e faticose libertà fino ad allora conquistate, aveva costituito la prova del nove dell’egoismo dinastico e, insieme, della inguaribile meschinità storico-politica dei Savoia, di cui Vittorio Emanuele III era stato il degno rappresentante.
Come già detto, Salvatorelli aveva scritto in un momento di grande, accesa passione politica. La liquidazione dei Savoia rappresentava un obiettivo politico a sé, al di là della stessa scelta di allora fra monarchia o repubblica. Un discorso sui Savoia nella storia d’Italia poteva essere un buon contributo per orientare su una larga base storica la scelta degli italiani nel 1946.
La genesi politica dell’opuscolo e gli intenti polemici di Salvatorelli rendono, quindi, conto dell’asprezza dei suoi giudizi, per cui sembra quasi, a volte, che sul trono sabaudo non si succeda via via una serie di sovrani fatalmente diversi ma segga sempre lo stesso Savoia. Molti episodi e aspetti delle vicende sabaude non ricevono un apprezzamento persuasivo. In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento.
Con tutto ciò l’opuscolo del Salvatorelli non rimane soltanto un documento della battaglia politica combattuta in Italia fra il 1943 e il 1946 pro o contro la monarchia. L’autore era troppo storico di vocazione e buon conoscitore della storia italiana per fare delle sue pagine tutte solo un atto di accusa. Il suo rifiuto di vedere la storia d’Italia come marcia progressiva e univoca verso un fatale destino di unità è irrefutabile, e bisogna dire che tuttora non tutti gli storici italiani mostrano di averlo davvero e in tutto assimilato. E altrettanto irrefutabile è la sua demitizzazione della storia sabauda, con la congiunta riduzione delle sue dimensioni a quelle di uno Stato italiano, giunto solo nel Seicento a un ruolo comparabile a quello che da secoli esercitavano Milano e Roma, Firenze e Napoli, Genova e Venezia, e con una tradizione dinastica non illustrata da personalità di particolare fascino storico e personale né prima né dopo l’unità italiana.
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