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Se lo Stato italiano ha dichiarato guerra alla Storia

In un lungo articolo, Ernesto Galli della Loggia mette il dito nella piaga della “buona scuola” prevista dal governo in carica. Una scuola che cancella la storia perché non è utile – anzi, dannosa – al “radioso” futuro che le nostre classi dirigenti ci stanno apparecchiando. Un futuro che viene ampiamente descritto in un’intervista – a seguire dopo il pezzo di Galli della Loggia – dal ministro Giannini: troppa educazione classica fa male al mercato. Lasciamo al lettore trarre le conseguenze del “combinato disposto” dell’analisi di Galli della Loggia con queste e altre affermazioni del ministro e le conseguenze sul destino del nostro paese. (SiR)

La scuola senza storia e i quesiti del concorsone

In Italia sembra che i problemi dell’istruzione si riducano a niente altro che all’immissione in ruolo di decine di migliaia di aspiranti insegnanti.
di Ernesto Galli della Loggia dal Corriere della Sera del 10 maggio 2016
Vige in Italia, per quel che riguarda l’istruzione scolastica, una singolare schizofrenia. Un giorno sì e l’altro pure tutto il mondo politico, dal presidente del Consiglio all’ultimo assessore, e al loro seguito i mass media all’unisono, sottolineano la sua assoluta importanza, la sua crucialità. Poi però sembra che in pratica i problemi dell’istruzione si riducano — oltre a qualche generico allarme per i risultati solitamente non brillantissimi ottenuti dagli studenti italiani nei confronti internazionali (vedi valutazioni Pisa) — a niente altro che all’immissione in ruolo delle decine di migliaia di aspiranti insegnanti. Cosa certo importante, ma forse non meno di qualcun’altra, circa la quale l’interesse è invece minimo. Per esempio il contenuto di molti programmi, e di conseguenza i valori diciamo così generali a cui l’insegnamento delle nostre scuole s’ispira e che cerca a sua volta di trasmettere.
I tre quesiti di storia ai quali sono stati sottoposti i candidati del recente «concorsone» di cui tanto si è parlato nei giorni scorsi, consente di farsi un’idea abbastanza precisa — sul versante della preparazione degli insegnanti — di quella che il ministero dell’Istruzione e i suoi funzionari considerano la prospettiva con la quale i giovani italiani devono essere invitati / addestrati a guardare al mondo. Nel primo di tali quesiti il candidato professore è invitato a progettare per una classe di scuola media la lettura di alcuni testi con relativi collegamenti tra i medesimi «sul tema del diverso, il profugo, l’estraneo».
Nel secondo l’esaminando è chiamato a delineare lo schema di una lezione di due ore «sul tema della demografia»: così, sulla demografia in generale, senza alcuna indicazione di tempo e di luogo. Infine, il terzo quesito lo invita, sempre per la scuola media, a «progettare una unità didattica di due ore sulla costituzione italiana». Questa è dunque l’idea della storia universale che ha nella testa il Miur e che viene indirettamente ma autorevolmente suggerita alla scuola italiana. Un’idea della storia che non sembra molto interessata a che un adolescente italiano, uscendo dal ciclo dell’istruzione obbligatoria, abbia qualche nozione, che so, di che cosa siano il Protestantesimo o l’Islam e di che cosa abbiano voluto dire le loro vicende, al fatto che egli sappia dell’esistenza di una Rivoluzione francese o di una cosa chiamata capitalismo, o che ci sia stata una Prima Guerra mondiale — al Risorgimento o all’Unità d’Italia non oso neppur pensare.
No, ai suoi insegnanti il ministero dell’Istruzione della Repubblica — ai cui vertici, non bisogna mai dimenticarlo siede un sottosegretario democrat esaltatore a suo tempo del rilevante contributo educativo apportato alla sua formazione dalle occupazioni scolastiche — il ministero dell’Istruzione, dicevo, fa capire che altre sono le cose che contano e alle quali essi debbono soprattutto porre mente. Per l’appunto, al «diverso» nelle sue varie accezioni e alla Costituzione (anche se mi chiedo quale: quella «più bella del mondo» o quella in edizione Renzi?).
Immagino il risultato nelle aule scolastiche. Quasi sempre, ci si può scommettere, il politicamente corretto più desolante, il più piatto conformismo buonista in obbedienza al vigente discorso pubblico ufficiale. È significativo infatti che nell’ottica del Miur non si invitino i futuri insegnanti a pensare a letture sulle migrazioni come grande fatto storico, sulle sue conseguenze nei secoli, ai giganteschi problemi connessi. Forse a qualcosa del genere si pensava anche, ma con questo taglio il discorso rischiava di risultare troppo spinoso, ed ecco allora che si preferisce parlare, invece, di letture sul «diverso, il profugo, l’estraneo». Insomma, le tragedie del mondo vengono espulse dalla storia e dalla sua dura realtà (e si pensi che si tratta di quesiti per la classe di concorso di storia!) per venire cloroformizzate dalle tranquillanti disquisizioni della sociologia edificante, dai fervorini etno-antropologici intrisi di buoni sentimenti. Consegnate al tema del «profugo» e dell’«estraneo», appunto: mentre la demografia è chiamata a conferire al tutto un opportuno tocco di scientificità.
Anche l’idea di fare della Costituzione, tra tutti gli argomenti possibili, l’oggetto di un quesito per una prova di storia obbedisce alla medesima volontà di una destoricizzazione di fatto della scena contemporanea. In questo caso a vantaggio di un approccio non più sociologico ma di tipo giuridico astrattamente prescrittivo ed evocando uno strumento, la Costituzione, anche in questo caso, come si sa, carissimo al più bolso discorso pubblico ufficiale. Impossibile comunque non collegare i due quesiti, e non leggerli come l’implicita affermazione di un presunto obbligo costituzionale all’accoglienza del «profugo», dell’«estraneo», eccetera eccetera.
È con questi criteri interamente schiacciati sul presente, su un’immediata contemporaneità declinata eticamente, è con questa idea di storia che con la storia in verità non ha più quasi nulla a che fare, che i nuovi insegnanti e per loro tramite i giovani italiani dovrebbero addestrarsi a stare nella loro epoca. Cioè ad affrontare un futuro di cui ignorano ogni passato, armati di una benevola sociologia, di appropriate nozioni demografiche, e naturalmente di sani principi costituzionali. Con tali premesse bisogna solo augurarsi che riescano a uscirne vivi.

Polemiche in Italia, il CdT svela cosa ha detto davvero il ministro Giannini

Gli appunti del freelance svizzero Luca Steinmann raccolti durante il suo colloquio con il ministro, riportati fedelmente
di Luca Steinmann dal Corriere del Ticino del 10 maggio 2016 
ROMA – Il mondo del web in Italia è in subbuglio per un’intervista rilasciata dal ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca Stefania Giannini al giornalista Luca Steinmann a Villa Vigoni il 4 maggio scorso a margine dell’incontro con l’omologa tedesca Johanna Wanka e pubblicata sull’Huffington Post. Intervista che ha suscitato vivaci reazioni per alcune affermazioni del ministro sugli immigrati, sul precariato e sul futuro della famiglia. Alcuni siti hanno ripreso l’articolo, il ministero ha pubblicato un breve comunicato stampa di precisazione, smentendo alcune frasi, in gran parte riferiti ad altri articoli apparsi sul web che avevano impropriamente citato l’articolo apparso sull’Huffington Post. Alla fine lo stesso Huffington Post ha deciso di cancellare l’articolo; il che non ha avuto altro effetto che di ampliare ulteriormente il rumore mediatico sui social.
Luca Steinmann è un freelance svizzero, in contatto con il Corriere del Ticino che a questo punto gli ha offerto la possibilità di chiarire una volta per tutte cosa gli abbia detto il ministro Giannini, che peraltro non ha smentito l’incontro. Per capire i veri contenuti dell’intervista abbiamo deciso di riportare fedelmente gli appunti che l’autore ha trascritto durante il suo colloquio con il ministro.
Ministro Giannini, in cosa consiste l’accordo che si appresta a firmare?
Si tratta di un accordo riguardante la formazione duale che conferma la cooperazione in materia iniziata tra i due Paesi già nel 2012, che firmerò con il Ministro dell’educazione e della ricerca tedesco Johanna Wanka. Esso riguarda la formazione professionale e si pone in continuità con il Jobs Act e la riforma della Buona Scuola per colmare la discrepanza che divide l’Italia con altri Paesi competitivi, come la Germania. Quelle da me citate sono riforme che incideranno profondamente in tutto il Paese che la Germania ha già attuato da oltre 10 anni con il governo Schroeder e che hanno permesso al Paese di non subire la crisi economica come la sta subendo l’Italia. La crisi, in Italia, è preesistente rispetto a quella scoppiata nel 2008, perché il Paese non ha attuato le riforme necessarie, come invece la Germania ha fatto per tempo. Oggi l’Italia sta colmando questo ritardo rispetto alla Germania. Che è, per questi aspetti, un modello, nonostante non si possa emularne totalmente il sistema per ovvie ragioni di diversità strutturali.
Quali sono, dunque, gli aspetti obsoleti del sistema di formazione che secondo lei andrebbero rimossi?
L’Italia paga un’impostazione eccessivamente teorica del sistema d’istruzione, legata alle nostre radici classiche. Sapere non significa necessariamente saper fare. Per formare persone altamente qualificate come il mercato richiede è necessario imprimere un’impronta più pratica all’istruzione italiana, svincolandola dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo teorica.
L’istruzione italiana è però quasi sempre il motivo per il quale gli studenti italiani trapiantati all’estero eccellono rispetto ai propri coetanei stranieri. Io stesso ho vissuto questo privilegio in prima persona e sono sicuro che chiunque si sia trovato in questa situazione possa essere d’accordo. I rapporti tra la cultura italiana e quella tedesca, inoltre, si fondano sull’elemento classico: il padre di questo legame, cioè Goethe, giunse in Italia proprio alla ricerca delle radici del classicismo e che le trovò a Siracusa e non ad Atene.
Certamente non dobbiamo rinnegare le radici classiche del sistema italiano, è però necessario stare al passo coi tempi e colmare la lacuna che ci divide dai Paesi competitivi. Il mercato richiede la formazione di personale flessibile e un’impostazione troppo teorica del sistema italiano rischia di essere d’intralcio.
A proposito della flessibilità: tale concetto viene in Italia considerato equivalente a quello di precariato. Si può dunque affermare che la flessibilità non sia sinonimo di malessere?
Sì. Flessibilità deve voler dire dinamismo e mobilità del lavoro e delle persone, anche se spesso viene tristemente associato alla precarietà. Con le riforme vogliamo introdurre una flessibilità virtuosa sia sociale che professionale.
Un modello di questo tipo è, per esempio, quello americano, la cui economia americana si fonda sulla flessibilità, quindi su quello che viene chiamato precariato, anche se è spesso pagato molto meglio rispetto all’Italia. Il responsabile economico del Pd Filippo Taddei ha detto che il massimo modello al quale l’Italia può aspirare è quello americano.Condivide tali posizioni?
Sì, purché si ricordi che nessun modello è esattamente replicabile e che l’Italia ha le sue particolarità che vanno mantenute. E’ comunque necessario procedere nella direzione di rendere il mercato più flessibile. La rigidità novecentesca va abbattuta. Le persone devono potersi muovere e spostarsi a seconda di ogni evenienza umana e lavorativa.
Sempre Taddei ha dichiarato che bisognerebbe”tassare ciò che è immobile per favorire ciò che è mobile”. In un tale sistema per gli individui è sicuramente più difficile avere delle certezze. Penso soprattutto alle donne, che solo per motivi biologici hanno bisogno di forse maggiori garanzie nel breve o medio periodo rispetto agli uomini, anche per avere il tempo per decidere serenamente se avere o meno dei bambini. E’ d’accordo?
Sì, sono d’accordo. Io stessa, appena avuto il primo figlio, ha lasciato geograficamente casa mia per andare a lavorare lontano, lasciando al padre il compito di occuparsi quotidianamente del bambino. Il mio è stato un comportamento atipico per quel tempo, ma dovrà rientrare nella normalità in futuro, perché anche le donne devono potersi spostare. Certo è che quella delle donne è una delle più grandi sfide all’interno del nuovo sistema a cui andiamo incontro.
Un elemento di novità sarà sicuramente rappresentato anche dalla famiglia. In un sistema flessibile come quello descritto, difficilmente ci sarà spazio per la famiglia come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, che difficilmente verrà intesa come forma di stabilità e di sicurezza per l’individuo.
E’ vero, io stessa ho avuto la fortuna di ricevere stabilità e sicurezze da parte della mia famiglia. Il modello che è stato promosso dalla generazione dei miei genitori, nati entrambi negli anni 20, è però destinato a mutare inevitabilmente con la società che, diventando più flessibile, necessita che lo siano anche i nuclei famigliari. Mi piacerebbe che in futuro la flessibilità venisse considerata come sinonimo di apertura.
In occasione dello stesso evento il Ministro tedesco Wanka ha detto pubblicamente – e forse provocatoriamente – che l’unico settore in cui la Germania sta vivendo un calo di produttività è quello della natalità, sottolineando come l’Italia e la Germania abbiano dati di decrescita demografica praticamente uguali, nonostante i dati economici pongano i due Paesi alle estremità opposte delle classifiche. Così dicendo ha evidenziato che la competitività figlia di un mercato flessibile non si traduce automaticamente in un aumento delle nascite. Le parole del ministro Giannini ne spiegano esattamente il perché: il concetto di flessibilità si fonda su una mobilità che rende più difficile la creazione di una stabilità, famigliare o individuale, almeno prima dei trent’anni. In questi termini è prevedibile che la famiglia come l’abbiamo conosciuta cessi di esistere; che anche in caso di miglioramento della situazione economica italiana il cosiddetto ‘inverno demografico’ si prolunghi; e che la fascia di persone più colpita in negativo dal progresso che stiamo vivendo rischino di essere le donne.
Il Ministro Wanka ha dichiarato pubblicamente, sempre in occasione dell’evento in questione, che la crisi demografica tedesca può essere controbilanciata dall’arrivo dei migranti. In questi termini, ha spiegato, l’arrivo di nuove persone va ad assumere una importante funzione economica e sociale. Le politiche di accoglienza potrebbero quindi non avere solo una funzione umanitaria, cioè quella sacrosanta di aiutare chi fugge da guerre o situazioni difficile, ma che risponda anche ad una necessità economica alla quale i Paesi flessibili e competitivi vanno incontro. Ciò è un riconoscimento da parte di chi governa che la Germania abbia bisogno dei migranti. Dobbiamo dunque prendere in considerazione il fatto che se l’Italia colmerà la discrepanza con i Paesi più produttivi – come la Germania – le politiche di accoglienza potrebbero andare a rivestire una funzione sempre più economica e non solo umanitaria.

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