HomeXX secoloSergio Ramelli, quando “uccidere un fascista non è un reato”

Sergio Ramelli, quando “uccidere un fascista non è un reato”

La Hazet 36 è una chiave inglese lunga quarantacinque centimetri. Ci si riparano le condotte del metano oppure i furgoni che smerciano malta e mattoni, su per i cantieri. Pesa quasi tre chili e mezzo e nelle officine del triangolo industriale la maneggiano mani unte di grasso e sudore. La si può trovare nei ferramenta, nel migliore dei mondi possibili.
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di Antonio Aloisi da Linkiesta del 29 aprile 2012 Home
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La Hazet 36, se vivi a Milano negli anni Settanta, la conosci meglio tu degli operai metalmeccanici. E la usi per il servizio d’ordine durante i cortei, è un’arma impropria di estrema efficacia deterrente. O sanguinaria, tocca a te decidere. Mentre nei locali risuona «You are the first, my last, my everything» di Barry White, ballabile come Dio comanda nelle feste studentesche dei licei meneghini, si fa politica davanti i cancelli. Coi volantini ciclostilati e le scritte fatte con lo spray. Con le barbette, i jeans e le molotov. Si respira un’aria di militanza e rappresaglia, le forze dell’ordine sono in allerta: possono violare la quiete delle facoltà anche senza l’autorizzazione dei rettori. Caricano e se le danno. La primavera del 1975 è intasata da una peste immobile, qualcuno dice che “le idee vanno indossate”: ci si veste coi giubbotti di pelle e i Ray-Ban a goccia modello Aviator. Barry White, se capisci un po’ di musica, è una mezza sega, meglio Gli Amici del Vento e la musica alternativa che parla dei tuoi vent’anni, della fiamma e di libertà. Non la passano le radio, la musica strana di Trama Nera: ci sono i concerti improvvisati per queste note e c’è la birra doppio malto a rendere orecchiabili le voci più rauche.

È l’anno in cui esce la moto Fantic Lei per le donne, è il 1975, e a palazzo Marino c’è un sindaco del Psi, uno che ha fatto il partigiano rosso ed auspica il disarmo delle forze di polizia. Nonostante il vecchio Aldo Aniasi e le motorette per signore, preferisci un Ciao, se sei uno del Fronte Universitario d’Azione Nazionale e ti devi muovere in zona Città Studi. Quanto alle donne di periferia: costoro, di mestiere, fanno le fidanzate. Nulla più: aspettano che i ragazzi passino sotto casa o all’uscita da scuola. Il tempo di un bacio, perché hanno sempre da fare i maschi. Ci sono le riunioni, le sezioni e la politica. Maledetta politica. Fatta di lividi e delusioni, di qui si urla: «contro il sistema / la gioventù si scaglia / boia chi molla / è il grido di battaglia». Maledetta politica. Fatta di motti e morti, di là si risponde:«i covi fascisti si chiudono col fuoco, con i fascisti dentro sennò è troppo poco». Intorno ci sono le piazze ed i muri di Milano, che in questi anni non si sa di che colore siano e non li vernicia più nessuno. Sono uno spazio libero dedicato all’ideologia e all’ironia, ci si lavora di notte: di colla e di fantasia. Prima nelle tipografie clandestine note nel giro, poi per le vie dei tram sotto i licei e davanti le università. Insomma, per confronto s’intende scontro: in estrema sintesi.

Nessuno sa se Sergio sia riuscito a vedere “Quanto è bello lu murire acciso”, un film sul Risorgimento diretto dal regista Ennio Lorenzini, nelle sale in quei giorni. Se non lo ha visto, non si è perso niente: dategli un po’ di tempo e vedrete. Non che siano solo tristi e violenti quegli anni, ci sono gli aperitivi e i soldi che girano. E le sale cinematografiche danno anche i capolavori della commedia erotica italiana, ma questi giovani qui il tempo di andare appresso alle cosce di Ursula Andress non ce l’hanno nemmeno. Fanno i militanti, per passione e vocazione e costrizione. Eppoi è una città senza sfumature, la Milano delle banche e dei poveri: l’unica via di mezzo cui è concesso di colorarsi di grigio è la nebbia. Quella umida delle valli padane e quella tossica dei lacrimogeni. Tutto il resto è definito, rosso o nero. Poi ci sono i bianchi, ma quelli restano negli oratori e non si sporcano le mani. Sergio è nero, ed è una lunga storia. A volerla raccontare in fretta, basta partire dalla fine. È l’ora di pranzo, la Hazet 36 è una chiave inglese: come apre i crani lei, nient’altro al mondo. Sergio ha appena parcheggiato, in due gli saltano addosso ed altri quattro fanno da palo. Sono studenti di medicina e di autopsie se ne intendono. Lo lasciano a terra in una pozza di sangue sotto casa.

Una vecchia vicina che ha capito tutto urla a squarciagola. Il tredici marzo 1975 è un giovedì, alla madre di Sergio impediscono di avvicinarsi al portone di casa: la morte ha l’odore del metallo e la faccia di suo figlio. Che però è ancora vivo, almeno per altri quarantasette giorni. Ha la testa dura, a quanto pare. Sergio Ramelli resta in coma fino al ventinove aprile che è un martedì e per i milanesi è il giorno del risotto. In quei giorni Milano si chiede perché mai, perché mai un diciannovenne debba spegnersi lentamente nel letto dell’ospedale Maggiore solo per aver scelto una parte anziché l’altra. Nei giorni dell’agonia di Sergio in televisione, sulle reti nazionali, c’è Punto e Basta: più che un varietà sembra un auspicio, in realtà è una raccomandazione disattesa. S’interroga in salotto la borghesia milanese. Ed ai funerali a caricarsi il feretro restano quattro militanti ed un certo Giorgio Almirante, che insomma qualcosa vuol dire. Nel frattempo la città è squassata da un odio violento. Le indagini percorrono la pista politica, che porta dritta ai giovani di Avanguardia Operaia. I suoi assassini, nel giro, li chiamano «gli idraulici»: colpiscono a caso mentre incateni la motoretta, colpiscono per ferire. Ma sbagliano e fuggono a piedi, con la lentezza di chi ha appena riparato un rubinetto rotto. Un lavoraccio fatto per bene.

Le mani che hanno sprangato Sergio erano attaccate ai corpi di Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo, giovani come Sergio, che non lo conoscevano neppure. Sapevano che attaccava manifesti e credeva in un altro dio. È bastata l’idiozia dell’appartenenza a scriverne la condanna definitiva dinanzi al tribunale dell’ideologia. Li beccano subito, Marco e Giuseppe, ma ci mettono anni ad incastrarli dacché «uccidere un fascista non è reato». Intanto l’addio a Sergio disegna sulle vie della metropoli una scia di sangue lunga e vivida, seguono vendette e rappresaglie. Roberto Grassi, mandante dell’insensato delitto, si suicida prima del processo per fare in fretta i conti con un’altra giustizia. Un anno dopo, un commando dei Comitati Comunisti Rivoluzionari uccide a sangue freddo Enrico Pedenovi, esponente milanese dell’MSI che sta per scendere in piazza a ricordare la morte del giovane liceale. C’è che la storia di Sergio non finisce qui, ma si potrebbe dimenticarla un giorno come tanti, si potrebbe affidarla alla polvere dell’esasperazione color del piombo, fingendo di essere stati uomini migliori, degni di un monumento. Questa storia precipita lungo una strada popolare. Si chiama ancora oggi via Paladini, quella strada sporca del sangue che porta fino ai giorni nostri, eppure somiglia tanto ad un vicolo cieco.

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