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Umberto di Savoia, l’altra faccia del Re di maggio

Nei primi mesi del 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Vittorio Emanuele III tentò di sostituire Mussolini: un 25 luglio anticipato di tre anni. Di tale proposito c’è traccia nel diario di Galeazzo Ciano. Il genero del duce scrive il 14 marzo 1940: «Al Golf mi avvicina il Conte Acquarone, Ministro della Real Casa. Parla apertamente della situazione in termini preoccupati, e assicura che anche il Re è al corrente del disagio che perturba il Paese. A suo dire, Sua Maestà sente che da un momento all’altro potrebbe presentarsi per lui la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose; è pronto a farlo ed anche con la più netta energia. Acquarone ripete che il Re ha verso di me “più che benevolenza, un vero e proprio affetto e molta fiducia”. Acquarone – non so se d’iniziativa personale o d’ordine – voleva portare più oltre il discorso, ma io mi sono tenuto sulle generali».

di Francesco Perfetti da  del 4 marzo 2015

Pochi giorni dopo Ciano incontrò Umberto di Savoia come risulta da una annotazione del 28 marzo: «Lungo colloquio ieri col Principe di Piemonte. Mentre di solito è prudente e riservato, pur senza troppo esporsi, non ha nascosto la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica, preoccupazione aggravata dalla sua conoscenza delle nostre condizioni militari. Nega che dal settembre a oggi siano stati realizzati effettivi progressi nell’armamento: il materiale è scarso e lo spirito è depresso. Parla con la più seria preoccupazione della milizia, che non rappresenta l’anima volontaristica dell’esercito, ma costituisce un nucleo di malcontento e di indisciplina».

Ulteriori riscontri di questa abortita congiura si trovano in una intervista di Umberto II, ormai in esilio, del 1963 e in una nota, risalente all’aprile 1940, consegnata da monsignor Maglione a monsignor Tardini nella quale si faceva riferimento a questi incontri e si parlava di un Ciano «in predicato di successione a Mussolini». La mossa del Re che mirava a far convocare il Gran Consiglio del fascismo e sostituire Mussolini con un elemento del fascismo moderato, legato alla Corona, non ebbe esiti concreti perché Ciano, pur ormai divenuto antitedesco, non si sentì di approfittare dell’occasione.
La vicenda è raccontata nel documentario dedicato a Umberto II, il Re di maggio realizzato da Rai Storia per il ciclo «Il tempo e la storia» condotto da Massimo Bernardini. Al di là del fatto che la congiura non venne realizzata, l’episodio è significativo perché conferma il «formalismo» di Vittorio Emanuele, il quale, pur non sopportando Mussolini, cercava, già all’epoca, una sponda «costituzionale» per farlo fuori: la convocazione del Gran Consiglio. C’è una sua battuta rivelatrice del carattere del Re: quando nel 1924 Amendola gli espresse le sue preoccupazioni per il futuro, questi lo zittì dicendo: «Io non sento e non vedo. Le mie orecchie e i miei occhi sono il Senato e la Camera». Ma l’episodio è illuminante anche su un altro punto, sul rapporto fra Vittorio Emanuele e Umberto, tenuto lontano dalla politica in base al principio che «i Savoia regnano una alla volta» e utilizzato, in questo caso, come messaggero e portavoce della volontà del padre.

Umberto aveva avuto un’educazione militare, anzi militaresca, sotto la guida dell’ammiraglio Attilio Bonaldi. Era cresciuto nel culto del «mestiere di re» che implicava profondo rispetto per la volontà del padre. Era stato «plasmato a freddo» e ciò ne spiega i comportamenti. Espansivo ma controllato, amava gli sport, il rapporto cameratesco con gli amici soprattutto d’arme, le feste. Era uomo di grande signorilità e lealtà, fedele alle amicizie, preparato nelle questioni costituzionali e militari. Una battuta di Mussolini lo definisce bene: «La discrezione è la sua eminente qualità morale, ma è anche il limite che la sorte ha assegnato alla sua personalità. Egli non romperà mai con le convenzioni. Resterà, vita natural durante, “Beppo” di papà suo».
Malgrado ciò, infastidito dalla popolarità del principe, il duce fece preparare – dopo il varo nel 1928 della legge che trasformava il Gran Consiglio in organo costituzionale attribuendogli competenze sulla successione al trono – un dossier ricattatorio. Questo dossier, sul cui contenuto e sulla cui sorte si è molto favoleggiato, venne recuperato e consegnato nel marzo 1946 al ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, che lo bruciò.
Il documentario tratta anche dei drammatici avvenimenti che accompagnarono il trasferimento del governo da Roma a Brindisi dopo l’8 settembre. Umberto, tenuto all’oscuro delle trattative e della firma dell’armistizio, era contrario alla decisione di lasciare Roma, ma fu costretto a partire. Quando, a Pescara, manifestò l’intenzione di tornare nella Capitale – era già stato predisposto l’aereo che ve lo avrebbe riportato – gli fu impedito. Badoglio gli disse: «Lei è un militare. Deve obbedire agli ordini».

Divenuto Luogotenente generale, prima, e poi Re dopo l’abdicazione del padre, Umberto, con la collaborazione del ministro della Real Casa Falcone Lucifero si rivelò politico apprezzato e lungimirante. Ripristinò la dialettica parlamentare attraverso la ripresa delle consultazioni per la formazione dei governi. Cercò di contenere l’epurazione quando questa assunse il carattere di vendetta privata. Si adoperò per veicolare l’immagine di una «monarchia progressista» e riuscì a recuperare molte simpatie monarchiche. Ma, soprattutto, con la decisione di lasciare il paese dopo il referendum istituzionale, evitò una nuova guerra civile. La decisione fu esclusivamente sua. Quando, prima che la Corte di Cassazione proclamasse la vittoria della Repubblica, il consiglio dei ministri la proclamò di fatto con una forzatura giuridica, Umberto rifiutò tutte le alternative proposte dai collaboratori e consiglieri – da quella minima di far finta di nulla a quella massima di far arrestate tutto il governo accusato di «colpo di stato» – e decise di partire per l’esilio lanciando un proclama di protesta contro l’«atto rivoluzionario». Fu una prova di responsabilità.

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Anche le vicende umane di Umberto sono prese in considerazione dal documentario a cominciare dal rapporto con la moglie Maria José. Il matrimonio non fu molto riuscito: troppo diverse erano le due personalità, troppo diversi i loro gusti culturali e i loro caratteri. Maria Josè fu infastidita, sin dai primi tempi del matrimonio, dal fatto che il marito tendesse a lasciarla per gli amici e dalle sue più o meno presunte relazioni sentimentali. Umberto era affascinante, charmant, ricercato dalle donne, soprattutto dell’alta società e del mondo dello spettacolo. L’attrice messicana Dolores Del Rio, per esempio, in tournée in Europa, dichiarò di voler passare in Italia solo per incontrare il bellissimo Principe. La soubrette Milly, che rese famosa la canzone Creola, intrecciò con lui una relazione sentimentale che riempì le cronache mondane.
Il documentario, insomma, offre un ritratto a tutto tondo dell’ultimo Re d’Italia, il «Re di maggio», vissuto all’ombra di un padre ingombrante e destinato a concludere i suoi giorni, come il suo avo Carlo Alberto, nell’esilio portoghese.

 

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Storia in Rete n. 83-84

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