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Uranio impoverito… o povero uranio?

L’ennesima – ed ormai rituale – denuncia dell’ex ufficiale ed ex parlamentare di sinistra Falco Accame circa i pericoli dell’uranio impoverito è di alcuni giorni fa ed ha preso lo spunto dal rimpatrio dal Libano di un nostro soldato cui è stato diagnosticato un rabdomiosarcoma a rapida crescita. Il caso ha riacceso la vexata qaestio sorta in merito all’utilizzo di questo minerale e divampata una prima volta all’indomani della Prima Guerra del Golfo e che ora sembra offrire un’ulteriore pretesto per alimentare una confusa campagna allarmistica, principalmente volta a screditare quelle istituzioni militari che – con il silenzio o per loro incompetenza – si sarebbero rese ree di aver coperto i rischi derivanti dall’impiego nell’uranio impoverito per la realizzazione di armature e proiettili.
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di Mariano Bizzarri – da Storia in Rete n. 20 
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L’uranio (U) è un metallo pesante radioattivo ubiquitario, rappresentato in natura da isotopi diversi e tutti radioattivi, cioè elementi che pur presentando la stessa configurazione protonica, hanno massa e caratteristiche fisico-chimiche diverse. L’uranio naturale contiene circa lo 0.71% di U235 (dove il numeretto in pedice indica la massa dell’elemento), il 99.28% di U238 e circa lo 0.0054% di U234. Il processo di «arricchimento» dell’uranio è rivolto ad incrementare la percentuale di U235, rimuovendo gli altri isotopi, per poter disporre di una maggior quantità di prodotto fissile da utilizzare principalmente nelle centrali nucleari. Ciò che «resta» dopo la separazione dell’U235 è una miscela di isotopi che prende per l’appunto il nome di «uranio impoverito». Data la bassa percentuale di U235 nel minerale grezzo, il processo di arricchimento – poco costoso ma anche scarsamente efficiente – finisce con il produrre ingenti quantità di uranio impoverito (UI). Fino ai primi anni ’80 questo materiale «di scarto» veniva conservato in depositi con la speranza di poter disporre, un giorno, di più sofisticate procedure che permettessero un’ulteriore estrazione dell’ U235. Nel 1970, tuttavia, la realizzazione di più efficienti armature da parte dei paesi afferenti al Patto di Varsavia, rese impellente per la NATO disporre di proiettili costituiti da materiali che per la loro elevata densità fossero capaci di penetrare le nuove corazze. L’uranio, circa due volte più denso del piombo, altamente piroforico (capace cioè di ignizione spontanea quando viene dissolto in nanoparticelle) si presentò da subito come una soluzione valida ed economica, l’unica alternativa essendo il tungsteno, disgraziatamente estratto principalmente in Cina e che, sotto il profilo tossicologico, sembra essere ancor meno maneggevole se non più pericoloso dell’uranio stesso. L’impiego di UI consentiva non solo di costruire armature efficienti e proiettili ad alta capacità penetrativa, ma permetteva, tra l’altro, di realizzare un consistente risparmio sulle spese di immagazzinamento del materiale stesso. Fu così che, verso la fine degli anni ’70, USA, URSS, Gran Bretagna e Francia cominciarono a convertire i loro silos improduttivi contenenti UI in munizioni e corazze. Il battesimo del fuoco per il nuovo materiale sembra sia stato quello del conflitto arabo-israeliano del 1973, anche se il primo teatro in cui venne fatto un massiccio ricorso a proiettili con uranio impoverito fu indiscutibilmente rappresentato dalla Prima Guerra del Golfo (1991). Armature e proiettili di tal fatta sono state successivamente impiegate in Cossovo, Bosnia, Serbia e nel conflitto iracheno del 2003.
Gli effetti tossicologici dell’uranio impoverito (UI) sono simili a quelli dell’uranio naturale, anche se meno pronunciati dato che l’UI è meno radioattivo dell’uranio «arricchito» in quanto costituito per lo più da U238. L’UI produce un basso livello di radiazioni per unità di massa e, come la sua controparte naturale, decade prevalentemente attraverso l’emissione di raggi α, costituiti da nuclei di elio, dotati di massa apprezzabile e ad alta energia, anche se la loro penetranza è estremamente scarsa. Questi dati sono patrimonio elementare di qualunque studente del primo anno di scienze biologiche e non si capisce come qualcuno possa credibilmente argomentare spropositi del tenore seguente: «Le irradiazioni naturali sono esclusivamente delle irradiazioni gamma provenienti dalla profondità del suolo. Queste irradiazioni gamma non sono formate da materia che produce fallout. Se l’irradiazione naturale fosse composta da particelle materiali sarebbero mortali. Tuttavia, le industrie nucleari utilizzano dei minerali radioattivi naturali per produrre metalli radioattivi pesanti come l’uranio 238 o UI.» In queste poche frasi il «capitano-comandante in pensione» Maurice-Eugène André riesce a collezionare un’infinità di stupidaggini la cui assurdità si giustifica solo in funzione del fine prefissato: poter dire tutto il male possibile dell’UI e, soprattutto, dei suoi utilizzatori. Amenità di questo tipo ed altrettante disinvolti stravolgimenti della verità scientifica non sono invero rari tra i documenti collazionati dall’onorevole Accame e chiunque ne visiti il sito (www.vittimeuranio.com) potrà farsene un’idea ben precisa.
I possibile effetti biologici dell’UI dipendono da numerosi fattori e in primo luogo dai caratteri dell’esposizione. Questa può essere infatti esterna o interna. L’irradiazione esterna è per il 95% costituita da raggi a, a corto raggio d’azione, incapace di penetrare la pelle se non per pochi micrometri. È improbabile che il contatto con grandi quantità di UI, quali quelle rappresentate nelle corazze dei tank, possano costituire un rischio apprezzabile, dato che l’UI è impacchettato a mò di «sandwich» tra lastre di acciaio, ceramica e kevlar che ne limitano completamente l’irradiazione all’esterno. Di fatto, la radioattività gamma e beta misurata presenta livelli di gran lunga inferiori a quelli massimi raccomandati. A riprova della scarsa pericolosità pertinente l’irraggiamento esterno dell’uranio, vale la pena ricordare che tra i lavoratori professionalmente esposti a tale materiale, così come tra gli animali da laboratorio sperimentalmente sottoposti a trattamenti esterni con uranio, non si è finora registrato alcun caso di cancro della cute. Ben diverso è il discorso relativo all’uranio che può essere inalato sotto forma di polvere. Un proiettile composto da UI, al momento dell’impatto, produce un particolato che si dissolve nell’aria sotto forma di aerosol e vi rimane in sospensione per alcune ore. Questa polvere può venire respirata, soprattutto dai militari che si trovano a prossimità dell’evento, e viene concentrata nel polmone e nei linfonodi. Una frazione viene solubilizzata e – per lo più sotto forma di ossidi di uranio – viene veicolata dal torrente circolatorio per concentrarsi quindi a livello del rene dove finisce infine con l’essere escreta. Parte dell’UI viene a depositarsi nelle ossa, nel fegato e soprattutto nel rene. Una situazione a sé è infine costituita da coloro che hanno riportato ferite ed abbiano incorporato in corrispondenza della lesione frammenti del proiettile composto da UI. Sugli effetti chimico-biologici dovuti all’inalazione di polvere di uranio esiste una corposa letteratura scientifica, prevalentemente ottenuta grazie allo studio protratto negli anni della popolazione lavorativa impiegata nella lavorazione del minerale. I numerosi studi epidemiologici finora pubblicati non hanno dimostrato alcun aumento generalizzato di mortalità in questo gruppo di persone. Risultati non univoci sono stati segnalati in relazione ad una possibile bassa epatotossicità [tossicità per il fegato NdR], mentre un solo studio ha evidenziato una moderata tossicità a carico del tessuto ematopoietico [legato alla produzione del sangue NdR] in un gruppo di minatori esposti all’uranio per più di vent’anni. Non esiste alcuna evidenza scientifica che consenta di mettere in relazione di causa effetto l’esposizione all’uranio e patologie del sistema immunitario, del sistema nervoso o a carico dell’apparato muscolo-scheletrico. A carico del rene, che costituisce a tutti gli effetti l’organo-bersaglio principale, non sono finora emersi dati che facciano ritenere maggiormente probabile una sua patologia nelle persone esposte rispetto ai controlli. Gruppi di lavoratori a più elevato rischio presentano solo minime alterazioni – caratterizzate da ridotto riassorbimento degli amminoacidi a livello del tubulo renale prossimale e da escrezione di proteine a basso peso molecolare – ma che per lo più sono transitorie e non esitano in alcun quadro patologico permanente. Insufficienza renale grave può essere sperimentalmente indotta nell’animale solo dopo ingestione di elevate dosi di UI. Tuttavia nessuno studio ha mai segnalato un’aumentata frequenza di patologie renali nella pur ampia popolazione professionalmente esposta (spesso ad elevati livelli) al minerale.
Per quanto riguarda gli aspetti cancerogenici, alcuni dei primi studi avevano evidenziato un eccesso di neoplasie polmonari tra gli operai addetti alla lavorazione dell’uranio naturale ed impoverito. Tale associazione – come è stato in seguito comprovato da numerose altre ricerche – era tuttavia da ascrivere alla concomitante esposizione ad altri ben noti cancerogeni, come il fumo di sigaretta e, soprattutto, il gas radon che proviene proprio dal decadimento dell’uranio. Una pletora di indagini – sia sperimentali sia epidemiologiche, condotte da enti governativi e non, università ed enti di ricerca, tra cui Green Peace International (rapporto Atkin) – ha successivamente confermato come l’esposizione all’uranio – sia esso «impoverito» che naturale – non determina alcun rischio significativo di tumore per livelli di esposizione anche superiori a quelli prescritti dai regolamenti internazionali o a quelli che si sono venuti a configurare in alcune aree e per brevi periodi nel corso degli ultimi conflitti (guerre del Golfo e Bosnia).
La concentrazione dell’uranio nell’acqua di mare è di 3.0 μg/L. L’uranio è altresì presente nell’aria, nelle acque, nel suolo. Viene assimilato con gli alimenti (circa 1-2μg/die) e con l’acqua (1.5 μg/die). Questi valori sono sostanzialmente superiori a quelli delle dosi massime raccomandate e ciò nonostante è di tutta evidenza che non possano essere messe in relazione ad un aumentato rischio di malattia, in specie di tipo neoplastico. C’è di più. Le concentrazioni di uranio rilevate al suolo variano sensibilmente da luogo a luogo, ma ciò che è interessante sottolineare è che quelle sperimentalmente e reiteratamente misurate sui campi di battaglia non divergono affatto dalla media, quando addirittura non presentano valori al di sotto di questa! (Tab. I). Sulla base di queste ed altre considerazioni un recente rapporto della Royal Society ha stabilito con chiarezza quanto segue:
1. con l’eccezione di circostanze estreme, le esposizioni normalmente raggiunte nel corso di eventi bellici sono tali da determinare un «eccesso di rischio» tanto «debole» da non poter essere rilevato.
2. per alcuni gruppi di militari esposti ad elevatissime concentrazioni di uranio – evento in sé raro e che riguarda piccoli numeri – si stima che, pur considerando il peggiore scenario possibile, il rischio di cancro al polmone possa aumentare da 1 ad 1,5 (50% in più rispetto alla popolazione non esposta). Nessun incremento di rischio viene rilevato per quanto riguarda tutti gli altri tipi di tumore.
Certo molti interrogativi e questioni restano sul tappeto: quali possano essere i danni a lungo termine sulla funzione riproduttiva, l’eventuale sinergia con altri fattori cancerogenici e soprattutto la pericolosità di altri materiali – come il tungsteno – che talvolta si ritrovano in alcune leghe utilizzate per confezionare particolari proiettili. Ma la loro natura, a prescindere dall’interesse scientifico rivestito, non è tale da costituire quella «emergenza sanitaria» che alcuni gruppi di opinione cercano a tutti costi accreditare. Il più delle volte ricorrendo a semplificazioni e manipolazioni dei dati scientifici finalizzate a rappresentare uno scenario apocalittico che, invero, non trova riscontro alcuno nella realtà. Stupisce che a questo tipo di demonizzazione dai fini inconfessabili si presti anche la RAI che non si vergogna di mandare in onda affermazioni improponibili del seguente tenore: «[…] I raggi gamma hanno passato le tre lastre di piombo […] con una energia pari a 6.000 volte quella irradiata dal sole (sic!) [….] nel proiettile noi abbiamo un concentrato di uranio impoverito e l’attività è pari a 40 milioni di becquerel per Kg». A formulare tale cumulo di monumentali sciocchezze è il Dr. Chareyron, direttore di un «istituto indipendente» (ma da chi?) per lo studio della radioattività. A dargli credito sembrerebbe che un proiettile all’uranio impoverito costituisca una sorta di centrale nucleare in miniatura! E pensare che qualcuno – RAI News 24 in testa – gli crede pure!
Mariano Bizzarri
Università di Roma, La Sapienza
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Inserito su www.storiainrete.com il 9 luglio 2010
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