HomeStampa italiana 1Da Bava Beccaris a Bresci. Anatomia di un regicidio

Da Bava Beccaris a Bresci. Anatomia di un regicidio

Giorgio Ferrari ricostruisce il lungo percorso che ha portato all’attentato a Umberto I

Matteo Sacchi da il Giornale del 27 Febbraio 2021

Monza, 29 luglio dell’anno mille e novecento, due destini si incrociano: quello di Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878, e quello di Gaetano Bresci, anarchico e figlio di contadini. Tre colpi di pistola – in rapida sequenza, e a breve distanza – contro il Re in carrozza, che saluta la folla venuta ad assistere ad un saggio ginnico, troncano la vita del monarca. È un attimo. La carrozza tenta la fuga, il Re dice «Non credo sia niente» e poi si accascia, la gente inferocita cerca di linciare Bresci che balbetta «non sono stato io». Lo salverà, arrestandolo, un maresciallo dei carabinieri, Andrea Braggio. Bresci non oppone resistenza e solo a posteriori, salvato dai bastoni, dirà la celebre frase: «Io non ho ucciso Umberto. Io ho ucciso il Re. Ho ucciso un principio».

Quella scena accaduta nell’afosa serata estiva di Monza che cambierà la storia d’Italia è solo l’ultima di un dramma iniziato ben prima. Per rendersene conto a 120 anni dalla morte di Gaetano Bresci, forse (e il forse è d’obbligo) suicida nel carcere di Santo Stefano a Ventotene, c’è un libro che ricostruisce non tanto il regicidio, quanto l’intricato percorso sociale e politico che ha portato a esso: Uccidete il Re Buono. Da Bava Beccaris a Gaetano Bresci (Neri Pozza, pagg. 272, euro 18) di Giorgio Ferrari. Ferrari, inviato speciale ed editorialista, cesella con precisione certosina il contesto europeo e internazionale in cui è maturato l’attentato. L’impressione che se ne ricava è che molte delle tensioni politiche e ideologiche del Novecento, nonché il militarismo e la violenza che ha portato alle Guerre mondiali, abbiano solide radici nel secolo precedente. I tre proiettili (ma c’è stato anche chi ha parlato di un quarto colpo) che uccisero un Re schiacciato dall’ombra di suo padre, il vitale e battagliero Vittorio Emanuele II, sono stati fusi tanto nello stampo dell’anarchia che in quello del militarismo bismarckiano.

Umberto I avanza verso la morte seduto sulla carrozza, azzimata ma traballante, di una monarchia dalle grandi ambizioni, eppure a capo di un Paese fragile e diviso. Mentre si susseguono gli scandali economici, buon ultimo quello che travolgerà il governo Giolitti e la Banca Romana nel 1893, la corte coltiva sogni di gloria militare, una politica di forza che emuli quella di Berlino. Una sudditanza mentale nata ben prima di quella di Mussolini nei confronti di Hitler. Le ambizioni coloniali, portate avanti dal governo Crispi, si colorano subito di scelte velleitarie con risultati disastrosi: basti ricordare la battaglia di Adua del 1896, dove le truppe italiane vennero travolte da quelle del Negus Menelik II.

I costi di queste scelte finirono inevitabilmente per cadere sulle classi popolari. E per sedare la loro rivolta non si esita ad utilizzare il cannone, come fece a Milano il generale Fiorenzo Bava Beccaris nel 1898. Ne ricevette in cambio da Umberto I l’ingresso nel senato del Regno. Ma lui e il Re ne ottennero anche una profetica canzone popolare: «Deh, non rider, sabauda marmaglia:/ se il fucile ha domato i ribelli/ se i fratelli hanno ucciso i fratelli/ sul tuo capo quel sangue cadrà».

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Non si può ridurre tutto a questa inutile repressione violenta o alle ambizioni di guerra di Umberto e di Crispi. Da anni il regicidio tentato o riuscito era diventato prassi comune in Europa. La sua teorizzazione ultima era stata fatta dall’anarchico Bakunin. E le messe in pratica sono troppe per elencarle, basti dire che prima di Bresci già altri due anarchici avevano tentato di assassinare Umberto I: Giovanni Passannante e Pietro Acciarito. Un meccanismo politico, nato dalle rivoluzioni borghesi o dai moti di unità nazionale, si era inceppato e veniva sostituito da una propaganda che vedeva nello Stato solo oppressione. Una propaganda che in Italia poteva saldarsi anche con una serie di movimenti con cui i Savoia avevano volentieri flirtato, almeno quando si trattava di abbattere monarchie altrui. Scriveva Errico Malatesta in morte di Bakunin: «L’idea della violenza, anche nel senso dell’attentato individuale che in molti ritengono peculiare all’anarchia, proviene in realtà dalla democrazia: è sufficiente essere democratici per adottare la rivolta, anche armata, contro l’oppressione. Prima di accogliere gli insegnamenti di Bakunin gli anarchici italiani hanno ammirato ed esaltato figure come Felice Orsini e i coups de main di Mazzini e Garibaldi e dei cospiratori risorgimentali».

Umberto I vittima anche del Risorgimento oltre che del desiderio impossibile di eguagliare i successi del Padre. E forse l’unico difetto del libro è di essere davvero severo, nella chiusa, sulla figura di questo monarca. Certo, fu un Re dandy che poco capì del Paese, come scrive Ferrari, ma a lasciarlo scivolare in quella trappola fu una intera corte di sonnambuli. Errori commessi anche con l’ausilio di certi intellettuali, come Carducci, che andavano in sollucchero per la regina Margherita, senza intuire lo iato tra Paese reale e monarchia.

Alla fine pagarono con la vita i manifestanti milanesi, i soldati di Adua, il Re e lo stesso Gaetano Bresci. Altri, altrettanto responsabili, da Crispi a Bava Beccaris o al generale Luigi Pelloux, passando anche per molti insurrezionalisti da divano, o avidi bancarottieri, se la cavarono senza pagare dazio alcuno o quasi.

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