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Fascismo e Cultura: il “Fatto quotidiano” si smentisce da solo…

La sparata di Andrea Scanzi – una delle tante – non è di molti giorni fa: il 3 maggio scorso, durante la trasmissione “Otto e mezzo” di Lilli Gruber su La7, il notoriamente schivo e misurato Scanzi, giornalista de “Il Fatto Quotidiano”, ha dichiarato, polemizzando col collega de “La Verità” Francesco Borgonovo: «Prima hai detto: manca sempre un cantante di destra in questi contesti del primo maggio. Ti do una notizia, non ci sono! Il vostro grande problema sul politically correct e sulla cultura è che vi sentite inferiori perché non avete uno straccio di intellettuale da 300 anni. Siete costretti a brandire Sgarbi, Vittorio Feltri e Povia. Siete messi male».

Ora, visto che un po’ di trombonaggine alligna da tutte le parti, da “destra” si sono scatenate le solite repliche a base di elenchi e rimandi di intellettuali di oggi, ieri e altro ieri, ascrivibili alla “cultura di destra”. Non è questa la strada che voglio seguire qui (fermo restando che nei prossimi mesi “Storia In Rete” si occuperà diffusamente della questione) anche perché polemizzare con gente come Scanzi è inutile (è di quelli che non solo non leggono ma neanche ascoltano). E’ invece interessante quanto si può leggere oggi, 18 maggio 2021, sul sito dello stesso giornale di Scanzi nella rubrica “Lo scaffale dei libri”, rubrica curata da Davide Turrini e Ilaria Mauri. Tra i libri segnalati ce n’è uno particolarmente interessante e, pare, molto puntuto: Piero Meli Luigi Pirandello “Io sono fascista” (Salvatore Sciascia Editore). Ecco cosa ne scrivono i due colleghi di Scanzi, sulla stessa testata di Scanzi:

“L’aver sottaciuto o minimizzato un Pirandello fascista è stata la costante della critica di questi ultimi settant’anni. Piaccia o non piaccia, Pirandello fu un fascista convinto”. Al professor Piero Meli non manca la franchezza e la determinazione dello storico più scrupoloso. Luigi Pirandello “Io sono fascista” (Salvatore Sciascia Editore) ne è la conferma lampante, risoluta, inappuntabile. Di primo acchito a colpire non è tanto la tesi centrale del volume nel momento esteso e dettagliato della sua conferma (la convinta adesione dello scrittore di Agrigento al regime mussoliniano eviscerata in diversi contesti della sua vita professionale), quanto la dovizia di particolari storici, la perlustrazione attentissima di fonti, lo scavo documentale peraltro non umanamente impossibile prima d’ora (si legga: non è stato volontariamente fatto da chi ha preceduto Meli per mera necessità politico-intellettuale). Quindi, il metodo. Meli recupera stralci di quotidiani dell’epoca (vado a memoria: Corriere della sera, L’impero, Gazzetta del Popolo, Il giornale d’Italia, La Stampa), nonché testimonianze inedite o perlomeno non ascoltate con attenzione (il figlio di Pirandello, Stefano) per tessere una tela in tre sostanziali capitoli tematici: l’adesione del drammaturgo al fascismo proprio tra il 1924-1925 nell’apice dell’annientamento criminale delle opposizioni; l’infinita querelle sul Nobel vinto sottotraccia quando invece c’era stato l’appoggio sommo dei notabili fascisti; la lettura errata del biglietto testamentario che lo vedrebbe prendere le distanze dal regime quando invece le poche richieste per uno scabro e distaccato commiato erano state scritte addirittura nel 1911. Nelle tracce di cronaca dell’epoca Pirandello è verbalmente aggressivo contro i nemici del Duce, camicia nera indossata sul palco delle celebrazioni, Mussolini “condottiero … senza paragoni nella storia”, a spese del regime a far conferenze in Scandinavia per agevolare la candidatura al Nobel. Solo un esempio concreto per far capire l’incredibile e voluta strumentalizzazione (anche dei più nobili corregionali Sciascia e Camilleri) dell’autore che si sottrae all’agone politico e che da questo non sarebbe stato appoggiato. Meli si concentra su un episodio apparentemente marginale degli ultimi quindici anni di vita di Pirandello sotto il fascismo (morirà nel 1936): l’arrivo in stazione a Roma, in pieno dicembre ‘34, dopo aver ritirato il Nobel dalle mani di Re Gustavo. Il Corriere della sera nel 1962 ne fa un racconto da porto delle nebbie: clima gelido, stazione fantasma, nessuno ad accoglierlo, il vuoto attorno al presunto artista che ha rifiutato il regime dittatoriale vivendo in silenzio la sua avversione. Dall’altro lato la cronaca de Il Giornale d’Italia di quel giorno: binario in festa, la folla di ammiratori e amici, la nipotina che gli corre incontro e gli va in braccio. Propaganda del regime? L’articolo del quotidiano è corredato da un’eloquente foto. E per chi ancora si ponesse il quesito “ma negli scritti di Pirandello non c’è alcun riferimento di appoggio al fascismo”, ecco le parole del maestro nel 1927: “è ovvio però che un fascista esprimerà un’arte fascista, ma non intenzionalmente, bensì come facoltà espressiva, spontanea”. Permetteteci anche un post scriptum: il medaglione d’oro del Nobel di Pirandello sapete dov’è finito? Fin dal 1935 nella bacheca di Mussolini. Voto (a lezione di storia): 8 1/2“.

Idealmente sottolineo e segnalo, non per Scanzi ma per chi ama la Storia e la verità fattuale, i seguenti passaggi:

  1. “L’aver sottaciuto o minimizzato un Pirandello fascista è stata la costante della critica di questi ultimi settant’anni. Piaccia o non piaccia, Pirandello fu un fascista convinto”
  2. Di primo acchito a colpire è (….) lo scavo documentale peraltro non umanamente impossibile prima d’ora (si legga: non è stato volontariamente fatto da chi ha preceduto Meli per mera necessità politico-intellettuale).
  3. Solo un esempio concreto per far capire l’incredibile e voluta strumentalizzazione (anche dei più nobili corregionali Sciascia e Camilleri) dell’autore che si sottrae all’agone politico e che da questo non sarebbe stato appoggiato. Meli si concentra su un episodio apparentemente marginale (…): l’arrivo in stazione a Roma, in pieno dicembre ‘34, dopo aver ritirato il Nobel dalle mani di Re Gustavo. Il Corriere della sera nel 1962 ne fa un racconto da porto delle nebbie: clima gelido, stazione fantasma, nessuno ad accoglierlo, il vuoto attorno al presunto artista che ha rifiutato il regime dittatoriale vivendo in silenzio la sua avversione. Dall’altro lato la cronaca de Il Giornale d’Italia di quel giorno: binario in festa, la folla di ammiratori e amici, la nipotina che gli corre incontro e gli va in braccio. Propaganda del regime? L’articolo del quotidiano è corredato da un’eloquente foto.

E’ un tema questo centrale ed eluso allo stesso tempo dal dibattito storiografico degli ultimi decenni: fermo restando che ognuno può e deve pensarla come crede, perché così tanti storici e intellettuali dichiaratamente antifascisti hanno scelto di barare al gioco, falsificando e omettendo documenti, circostanze, testimonianze oltre che mortificare la logica e l’evidenza? Il caso di Pirandello non è certo isolato: la lista che prima o poi andremo a fare è lunghissima, articolata, piena di nomi altisonanti, in continuo aggiornamento. Come dimostra il recente studio del professor Paolo Simoncelli sulle censure vere e presunte subite dal pittore Corrado Cagli, prima e dopo la Seconda guerra mondiale: “Cagli, De Libero, La Cometa. Censure e manomissioni dagli anni 30” (Ed. Nuova Cultura, Roma). Ne parleremo presto sul sito e sulla rivista.

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