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Il nostro delirio suicida, processare il passato

La crassa ignoranza della storia che ormai pervade le nostre società e l’ansia del «politicamente corretto» che sta devastando l’immagine di sé dell’Occidente

di Ernesto Galli della Loggia dal Corriere della Sera del 3 aprile 2021

Che cosa è successo perché si arrivasse ad accettare o addirittura spesso a promuovere, l’abbattimento delle statue di Colombo e Churchill considerandoli dei gaglioffi impresentabili? A pensare che insegnare l’opera di Omero, di Dante e di Shakespeare, o eseguire la musica di Mozart costituisse una discriminazione offensiva verso chi ha un colore della pelle diverso dal bianco? Perché si diffondesse l’idea che la nostra storia sia null’altro che un cumulo di errori e di orrori? Da dove nasce questo delirio suicida del «politicamente corretto» che sta devastando l’immagine di sé dell’Occidente, contribuendo a paralizzarlo ideologicamente sulla scena del mondo?

Le origini sono molte ma a mio giudizio una spicca sulle altre: la crassa ignoranza della storia — innanzi tutto della propria storia — che ormai pervade le nostre società. Un frutto a sua volta di quella rivoluzione verificatasi a cominciare dalla seconda metà del secolo scorso nella formazione scolastica e universitaria, in specie delle élite politiche ma non solo: quando cioè diritto ed economia presero a sostituire il vecchio impianto a base storico-umanistica, divenendo sempre più il cuore del percorso formativo. Mentre, tra l’altro, pure diritto ed economia si liberavano progressivamente dello sfondo storico che fino ad allora era stato anche il loro (si veda ad esempio la progressiva emarginazione delle materie storiche nelle facoltà di giurisprudenza).

Tutto ciò ha significato che abbiamo cominciato a perdere la dimensione del passato. Non solo a ignorare i fatti accaduti, che già non è poco, ma soprattutto a dimenticare che l’universo dei valori è anch’esso un universo storico, vale a dire soggetto a modifiche profonde con il passare del tempo. Per cui ciò che oggi ci appare inconcepibile — mettiamo la condizione d’inferiorità della donna o il lavoro dei minori — due o tre secoli fa era cosa comunemente accettata come la più ovvia normalità: tanto nella nostra cultura come in ogni altra del pianeta. Lo stesso dicasi dell’uso della tortura, della violenza e della guerra. La conquista, l’assoggettamento di altre popolazioni, la loro riduzione in schiavitù, sono state per secoli e secoli, per millenni, la regola universalmente seguita non solo dagli Europei ma da tutte le civiltà e i popoli della terra. Da tutte, a cominciare da quelle che oggi levano il dito accusatore contro «i bianchi».

La tratta dei neri verso l’America sarebbe stata impossibile, ad esempio, se preliminarmente vaste reti di trafficanti arabi e alcuni regni indigeni africani non si fossero dedicati alla cattura di alcuni milioni dei suddetti disgraziati nell’interno del continente, appunto per poi rivenderli ai negrieri inglesi, olandesi, francesi che li aspettavano sulla costa. Non si vede proprio perché, dunque, l’unanime condanna che oggi giustamente colpisce questi ultimi non debba estendersi anche ai primi. Eppure non si vede mai l’indice degli attivisti o dei media o di qualche istituzione universitaria occidentale puntato verso la civiltà islamica o verso le culture indigene africane che hanno conosciuto(e le seconde conoscono ancora!!) la schiavitù né più né meno di quella cristiana e americana in specie. La vera differenza (peraltro decisiva) è stata nel fatto che a causa delle conoscenze scientifico-tecniche che la civiltà europea è stata per quattro o cinque secoli l’unica a detenere, essa ha avuto una potenza di sopraffazione e di egemonia che nessun’altra civiltà ha avuto. Ma si può immaginare che in condizioni analoghe il regno del Dahomey o il bey di Tunisi si sarebbero comportati molto diversamente?

Questa mancanza di conoscenza e quindi di senso storico si è rivelata assolutamente decisiva nella costruzione del paradigma della «vittima», a sua volta basilare sia per la nascita che per la legittimazione pubblica del «politicamente corretto». Questo infatti è sentito quale il giusto riconoscimento risarcitorio per i torti subiti in passato da chiunque appartenga oggi a un gruppo sessuale, sociale, etnico o nazionale (donne, omosessuali, neri, discendenti dei popoli abitanti delle ex colonie) oggetto di un simile torto. Non solo però è evidente che nella storia così come non esistono ragioni non esistono neppure torti, specie se ascrivibili a qualcosa di cosi generico come le culture o le civiltà — ché altrimenti saremmo obbligati a fare la somma algebrica degli uni e degli altri e con il risultato compilare una grottesca classifica finale — ma è davvero bizzarro che il «politicamente corretto» chissà perché appaia sempre riguardare esclusivamente i torti, le sopraffazioni e le discriminazioni che hanno costellato il passato europeo e mai quello altrui.

Si dovrebbe tener fermo, insomma, che nella storia non possono trovare posto i nostri criteri morali attuali. Criteri morali attuali che noi tendiamo viceversa a proiettare anche nel passato: non solo perché del passato sappiamo e capiamo sempre meno ma anche perché, paradossalmente, mentre ne teniamo gran conto per riconoscere legittimità a chi chiede risarcimento per i presunti torti subiti allora, per un altro verso, invece, siamo sempre più indotti a fare come se esso non ci fosse mai stato, non avesse avuto conseguenze che non possono essere cancellate dall’oggi al domani.

Oltre l’ ideologia del progresso tutta orientata al futuro altre spinte egualmente fortissime vanno oggi in tale direzione. Prima di ogni altra, mi sembra, la travolgente giuridicizzazione di sempre più numerosi ambiti della nostra vita quotidiana, con il proliferare di sempre nuove norme che anche psicologicamente e culturalmente non fanno che ridurre di continuo non solo lo spazio della consuetudine e della tradizione, ma in generale il peso di qualsiasi «prima», di qualunque anche recentissimo passato. Non solo, ma l’attuale pervadente giuridicizzazione, fondata ovviamente sul principio di eguaglianza e con la sua produzione a getto continuo di diritti, vale a radicare l’idea assolutamente centrale nella costruzione del «politicamente corretto» – che qualsiasi azione o comportamento, desiderio o modo di vita di ogni individuo debba necessariamente tendere a rivestire la forma di un «diritto», e naturalmente ad essere tutelato giuridicamente in quanto tale. In particolare per ciò che riguarda la sfera dei rapporti interpersonali e sessuali. Obbligo del risarcimento storico e dimensione del diritto si saldano così in un dispositivo ideologico che ha dalla sua l’invincibile forza che spira dall’aria dei tempi.

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