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Ilari: la politica estera italiana? Una questione di intelligence

Ilari interviene al Master in Intelligence: i nostri alleati Nato – Francia e Gran Bretagna, in particolare – furono spesso nostri nemici…
Non è questione di dietrologie: se queste ci sono (com’è inevitabile, quando si ha a che fare con i servizi segreti) non è detto che siano legate a fattori e vicende negativi. Tutt’altro: saperle cogliere aiuta a capire le dimensioni in profondità della storia. Ad esempio: come mai nel 1950 l’Italia, appena entrata nella Nato, fece la soffiata a Tirana che salvò il regime di Enver Hoxha da un tentativo di golpe dei fascisti albanesi?
Come mai l’Urss appoggiò l’Italia contro la Yugoslavia per la questione di Trieste, laddove gli alleati, Inghilterra e Stati Uniti, si erano invece dimostrati alquanto tiepidi nei confronti delle istanze italiane? Inoltre: come mai l’ascesa al potere di Gheddafi coincise con l’espansione dell’Eni in Libia, a dispetto dell’espulsione degli italiani operata dal regime nordafricano?
E ancora: perché l’Italia, formalmente atlantista, iniziò una politica estera parallela, a favore dei movimenti irredentisti del Medio Oriente (è il caso dei rapporti con l’Olp) e dei Paesi del Terzo Mondo? Quest’ultimo quesito è il più delicato e, allo stesso tempo, il più vistoso: si pensi alle continue triangolazioni italiane tra Israele e i movimenti che sostenevano la causa palestinese.
E si potrebbe continuare.
Una prima risposta sta nella chiave di lettura degli eventi, tutti o quasi ancora in bilico tra cronaca e storia: laddove non arriva la storiografia, spesso condizionata dalle lenti deformanti delle ideologie del XX secolo, soccorre la geopolitica (e, ovviamente, il realismo politico, che ne dovrebbe essere il principio ispiratore). Una seconda riposta può essere fornita dalla comprensione dei soggetti che attuarono queste politiche parallele e dei loro. Il che ci riporta, appunto, ai servizi segreti e all’intelligence.

La storia parallela della politica estera italiana apre squarci impressionanti sull’attività di uno Stato che, ufficialmente, quasi non aveva autonomia decisionale in quest’ambito, dopo il ’43. Di questa storia, che emerge ora a fatica dagli archivi fino a ieri secretati ha tracciato un affresco suggestivo Virgilio Ilari, uno dei massimi esperti di storia militare, nel corso della settima edizione del Master in Intelligence dell’Università della Calabria.
Ed ecco la verità secondo Ilari: l’Italia sconfitta che operò nel dopoguerra riuscì a inserirsi, sgomitando alla grande, in un contesto particolare, che non era solo quello, ad alta tensione ideologica e ad alto rischio, della Guerra Fredda. Ma era anche quello, se si vuole più prosaico, della decolonizzazione.
Secondo il prof romano la liquidazione degli imperi britannico e francese coinvolse tutti i soggetti politici europei e innescò un gioco geopolitico piuttosto spinto, in cui «gli alleati spesso non erano amici e gli amici non erano alleati». Ed ecco che l’Italia, ridotta a un cumulo di macerie, fu accolta nella Nato grazie alle pressioni dei francesi, i quali temevano di ritrovarsi sulle Alpi le divisioni sovietiche in seguito a un nostro crollo. La nostra ammissione nella Nato, ha proseguito Ilari, «avvenne a dispetto dei timori della Gran Bretagna, che paventava la ripresa di una politica italiana autonoma nel Mediterraneo, a danno dei suoi interessi».
Sempre per completare il quadro, Ilari ha spiegato in maniera magistrale le troppe ambiguità, spintesi oltre il paradosso, della comunità internazionale sulla questione adriatica.
Gli Usa e la Gran Bretagna si dimostrarono tiepidi nel contenzioso tra l’Italia e la Jugoslavia perché intendevano riprendere il vecchio progetto di un’intesa balcanica tra il regime di Tito, la Grecia e l’Albania che facesse da cuscinetto all’espansionismo del Patto di Varsavia.
L’Urss, invece, sostenne le ragioni italiane per due motivi: non pregiudicare la posizione politica del Pci e frenare l’espansionismo di Tito, che stava per consumare lo strappo verso i sovietici.
La lettura in controluce di queste dinamiche complesse spiega la soffiata italiana a Tirana: evitare la destabilizzazione di Hoxha significava scongiurare il rischio dell’intesa balcanica che, qualora fosse stata realizzata, avrebbe comportato il declassamento del nostro Paese nello scacchiere internazionale. E spiega pure la successiva apertura dell’Italia alla Jugoslavia, sancita da molti trattati commerciali e consolidata con i Trattati di Osimo, in seguito ai quali Istria, Carnaro e Dalmazia passarono definitivamente al paese socialista. In questo caso la preoccupazione italiana fu di arginare l’espansionismo economico tedesco nei Balcani.
La decolonizzazione, inoltre, comportò l’arretramento britannico e francese nel Mediterraneo, che si risolse in sostanziali vantaggi per l’Italia, propiziati dalla politica aggressiva dell’Eni di Enrico Mattei. Ed ecco che l’indipendenza dell’Algeria (sostenuta tra l’altro dallo stesso Mattei) rafforzò la presenza italiana nel Maghreb. Ecco che l’ascesa al potere di Gheddafi ridusse la presenza del capitale anglosassone in Libia, gradito allo spodestato re Idris, tradizionale amico degli inglesi, a vantaggio dell’Eni, che prese il posto delle sette sorelle.


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Il contesto in cui l’Italia fu costretta a barcamenarsi era questo. Né, a sentire Ilari, ci sarebbero state troppe alternative per un Paese povero di risorse energetiche, delle quali c’era un bisogno disperato per sostenere il decollo industriale. Né c’erano alternative per preservare il più possibile della propria sovranità e gestire la propria sicurezza senza sacrificare troppo l’autonomia decisionale.
Questi compiti delicati furono gestiti dai Servizi Segreti, di cui emerge, grazie all’apertura degli archivi, un ruolo ben diverso di quello finora assegnato loro da molta letteratura, soprattutto giornalistica.
Val la pena, al riguardo, riprendere la metafora con cui Mario Caligiuri, il direttore del Master, ha commentato l’intervento di Ilari: «Sui nostri Servizi Segreti esistono solo due opere complete: la Storia di De Lutiis, ponderosa ma un po’ troppo condizionata a livello ideologico, e il libro, ormai introvabile, del generale Ambrogio Viviani, che racconta un suggestivo dietro le quinte sulle vicende della nostra intelligence».
Il sottinteso è piuttosto chiaro: se si continua a leggere la storia recente dell’Italia attraverso i prismi dell’ideologia non si riuscirà mai a comprendere davvero quel che è successo. O, per dirla con von Ranke, «il modo in cui andarono le cose». Al contrario, uno sguardo realistico può aiutare a fare chiarezza e a sgomberare il campo dai tanti, troppi pregiudizi moralistici che predominano tuttora nella lettura dei fenomeni politici.
L’espressione chiave per giudicare certi comportamenti dell’intelligence italiana, l’unico organismo in grado di gestire la politica estera e la diplomazia parallele necessarie per ottenere determinati risultati, è interesse nazionale. Un interesse perseguito, ha concluso Caligiuri, «da una classe dirigente seria e responsabile, di cui figure come Enrico Mattei facevano parte a pieno titolo».
Si può dire lo stesso dei nostri leader attuali?

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