HomeRinascimentoLa sfida di Clelia Farnese alle ambizioni del padre

La sfida di Clelia Farnese alle ambizioni del padre

Paolo Mieli, sul “Corriere della Sera” ha dedicato ampio spazio ad un libro appena uscito e dedicato ad una figura particolare del Cinquecento romano: Clelia Farnese, figlia del Cardinale Alessandro Farnese juniore, nipote di Paolo III e, a sua volta, più volte candidato a diventare pontefice. Non ci riuscì anche per l’opposizione dei Medici. Una vicenda cui “Storia In Rete” ha dedicato qualche anno fa un documentario messo in onda da La7 e presto disponibile in modalità streaming.

Nella seconda metà del Cinquecento, Roma fu dilaniata dal conflitto tra due cardinali: Alessandro Farnese e Ferdinando de’ Medici. Conflitto che si protrasse per anni e trascinò con sé la Chiesa tutta.

di Paolo Mieli, dal Corriere della Sera del 3 settembre 2013 Corriere della Sera

I contrasti tra le famiglie dei due porporati erano iniziati già nella prima parte del secolo, ai tempi del «pontificato farnesiano», cioè nel periodo (1534-1549) in cui un altro Alessandro Farnese era stato Papa con il nome di Paolo III. Paolo III fu in realtà un Pontefice di larghe vedute: nel 1536 istituì una commissione per la riforma destinata ad elaborare un importante documento sul rinnovamento della Chiesa. Sulla scia di questo testo fu quel Papa che convocò il Concilio di Trento. A lui si devono, nel senso che ne fu il committente, la chiesa del Gesù, palazzo Farnese e villa Caprara. Ma fu anche un Pontefice ultranepotista, ebbe figli illegittimi (Pier Luigi e Costanza), nominò cardinali due suoi nipoti (Alessandro Farnese e Guido Ascanio Sforza), attribuì al figlio Pier Luigi il ducato di Parma e Piacenza e al secondogenito di Pier Luigi, Ottavio Farnese, il ducato di Camerino. A membri della famiglia di Paolo III fu fatta risalire l’uccisione, nel 1535, del cardinale Ippolito de’ Medici. Ma offrì anche protezione a molti oppositori di Cosimo de’ Medici e gli fu addirittura messo nel conto un piano di destabilizzazione dello Stato mediceo.Come risposta, Cosimo diede aiuto ad alcuni potenziali nemici della Chiesa di Roma. Autorizzò poi il ciclo di affreschi di Jacopo da Pontormo nel coro della basilica di San Lorenzo, dipinti ispirati al pensiero eterodosso dello spagnolo Juan de Valdés. Rifiutò l’estradizione di persone sospette d’eresia indagate dal Sant’Uffizio. E ad un certo punto minacciò perfino di aderire alla Lega di Smalcalda, creata nel 1530 da principi protestanti tedeschi (Filippo I d’Assia e Giovanni Federico elettore di Sassonia) per dare supporto alla diffusione del luteranesimo. Lega che si mosse altresì in contrasto con la Chiesa e con Carlo V, impegnando quest’ultimo in un conflitto che si concluse soltanto con la pace di Augusta (1555), la pace in cui fu stabilito il principio cuius regio, eius religio, che sanciva l’obbligo per i sudditi di adeguarsi al credo religioso del loro principe, avendo l’alternativa di emigrare in un altro principato nel quale la religione di Stato (cioè di un altro principe) fosse quella che loro professavano.Cosimo, dunque, stava avvicinandosi passo dopo passo al protestantesimo e in questo contesto parve potesse inquadrarsi la sua iniziativa di espellere (dal convento di San Marco) i domenicani, accusandoli di essere sovvertitori dell’ordine pubblico. Passo che giustificò con la necessità di difendere la giurisdizione medicea dalle pesanti interferenze di Paolo III.

Fu in quel momento che il commissario generale dell’Inquisizione romana, Teofilo Scullica, dicendosi convinto di «far cosa gratissima al Papa», fece avviare minacciose indagini su Cosimo, indagini che furono interrotte, dopo la morte del Farnese, dal suo successore, Papa Giulio III.La distensione tra papato e Medici durò, però, solo cinque anni, dal 1550 al 1555. Un nuovo Pontefice, Gian Pietro Carafa (Paolo IV) riprese, indurendola, la «missione» del predecessore Farnese e, nel corso del suo pontificato (1555-1559), ci furono nuove tensioni tra il Vaticano e i Medici. Nel 1559 viene alla luce un complotto contro Cosimo de’ Medici, ordito da Pandolfo Pucci, in cui sono probabilmente coinvolti il cardinale Alessandro Farnese e suo fratello Ottavio. A questo punto, i Medici capiscono che lo scontro frontale li esporrebbe a gravissimi rischi, cambiano strategia e iniziano una marcia di avvicinamento alla curia romana. Che si conclude felicemente con la nomina a cardinale di Giovanni de’ Medici e, dopo la sua morte, del fratello Ferdinando (1563).Ferdinando fu un abilissimo politico, inanellò un successo dopo l’altro e, durante il pontificato di Pio V (il domenicano Antonio Michele Ghislieri, 1566-1572), riuscì ad ottenere per i Medici una bolla che conferiva loro il titolo granducale, titolo che li poneva al di sopra di gran parte dei sovrani italiani. Colpita ne fu in particolare la rivale casa d’Este, tant’è che il cardinale Ippolito d’Este decise di riaprire le ostilità contro i Medici. Ma lo stratega occulto dell’iniziativa antimedicea doveva essere il più potente cardinal Farnese, il quale, a questo punto, decise di puntare con decisione al soglio pontificio: secondo il suo piano avrebbe dovuto essere lui il secondo Papa Farnese del Cinquecento e dal trono di Pietro avrebbe rimesso le cose a posto, tutelando gli interessi della propria famiglia e di quelle ad essa collegate.La trama per conquistare il trono di Pietro è arricchita da episodi misteriosi. Nel settembre del 1571 il cardinale Farnese scopre una cospirazione ai suoi danni e fa arrestare gli attentatori, i quali prontamente accusano come mandante un membro della famiglia Medici. Pio V pensa, però, che si tratti di una macchinazione del Farnese per presentarsi come vittima dei suoi rivali, fa rinchiudere gli attentatori nel carcere romano di Tor di Nona e, dopo averli fatti interrogare, denuncia l’infondatezza delle accuse ai Medici. È in questo contesto storico che si svolge la Storia di Clelia Farnese, a cui Gigliola Fragnito ha dedicato uno straordinario libro che, con il sottotitolo Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma, sta per essere pubblicato dal Mulino.Clelia (nata nel 1557), figlia naturale del cardinal Farnese, fu una ragazza bellissima che colpì Michel de Montaigne, il quale la volle citare nel suo Journal de voyage. Ma fu anche (o soprattutto) una pedina importante sulla scacchiera politica del cardinal genitore.

Il suo avo paterno, Papa Paolo III, di figli ne aveva avuti almeno quattro e suo padre, Alessandro, era stato fatto cardinale all’età di 14 anni assieme al cugino, sedicenne, Guido Ascanio Sforza di Santa Fiora, due «putti in culla», ironizzò Pasquino sui muri di Roma. Il giovane Alessandro Farnese fu assai irrequieto, fino al punto di minacciare più volte di «scardinalizzarsi». Fu solo il miraggio della tiara, per dirla con le sue parole del «più bel di tutti i manti» (quello papale), che, in età più adulta, lo convinse a tenere sul capo quel cappello cardinalizio che aveva calzato giovanissimo in violazione alla legge canonica, per cui trent’anni era l’età minima per essere fatti cardinali.Paolo III disprezzava quel ragazzo: «A me non è mai parso da niente», diceva del nipote e aggiungeva di dubitare, «vista la sua mala vita», che anche se avesse retto «di sorte in venere e chiavamenti» avrebbe potuto vivere a lungo. Sbagliava, Paolo III. Il nipote visse a lungo, continuò a praticare una «vita licenziosa» e a dedicarsi alle «grandezze mondane», anche se, che si sappia, di figli ne ebbe uno solo. Anzi, una: Clelia, appunto. La quale, quando aveva appena nove anni, fu dal padre (che già da tempo si dedicava ai suoi destini in chiave «politica») promessa in sposa a Giovan Giorgio Cesarini, nel quadro di una complicata strategia di intrecci familiari: «L’alleanza con i Cesarini» scrive Gigliola Fragnito, «si inscriveva in una politica perseguita con coerenza e tenacia da Paolo III fin da quando, divenuto cardinale, aveva deciso di dare visibilità sulla scena romana al casato originario dell’alto Lazio».I Cesarini erano una famiglia in ascesa: «A facilitare la loro affermazione sociale aveva indiscutibilmente contribuito la presenza nel collegio cardinalizio di tre loro membri». Divennero quindi celebri per la loro opulenza: alla corte dei Cesarini si contavano ben 275 «bocche» da sfamare. Una ricchezza che li faceva secondi solo ai Farnese. Ai tempi del sacco di Roma (1527) furono in grado di sborsare una cifra enorme, 45 mila ducati, «in cambio dell’impegno, peraltro non mantenuto, di preservare da saccheggi e violenze» dei lanzichenecchi, al soldo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, il loro palazzo di Torre Argentina. All’aiuto fondamentale dei Cesarini, inoltre, Paolo III doveva la conquista, nel 1534, del soglio pontificio. E finché Paolo III era restato in vita, le fortune dei Farnese e quelle dei Cesarini erano cresciute senza subire rallentamenti. Poi però, nel 1555, Giuliano Cesarini partecipò, assieme ad alcuni cardinali, a una congiura degli aristocratici filoimperiali contro Paolo IV, Gian Pietro Carafa, Papa tenacemente antispagnolo. E finì in prigione a Castel Sant’Angelo. La pace di Cave tra Paolo IV e Filippo II di Spagna portò alla sua liberazione, ma la famiglia di Giuliano Cesarini era provata dai notevoli contraccolpi per le traversie subite ai tempi di Papa Carafa. Ragion per cui Giuliano fu ben lieto di impegnare il proprio figlio, Giovan Giorgio, per un matrimonio con Clelia. Il primo incontro tra i due genitori avvenne in forma discreta nel dicembre 1565. Il cardinale Farnese fu oltremodo prudente: era appena scomparso Papa Pio IV e lui, pur non avendo messo a punto una strategia efficace, sperava di conquistarne il «trono». Nel qual caso, ovviamente, avrebbe destinato Clelia a un partito migliore. Di qui la sua prudenza nell’offrirla a un Cesarini. Ma la sorte non gli fu propizia e per la successione al soglio pontificio fu scelto Ghislieri (Pio V), il Papa che, come si è detto, avrebbe avuto un ruolo decisivo per le fortune dei Medici. Il cardinal Farnese tornò così ai Cesarini e lo fece a dispetto delle perplessità di sua sorella Vittoria, la quale riteneva eccessiva la fretta del fratello nel decidere il futuro matrimoniale della figlia.

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Si convenne che Clelia sarebbe andata all’altare non appena avesse compiuto i dodici anni. Da quel momento, in attesa del matrimonio, a prendersi cura della piccola fu, alla corte di Urbino, la succitata sorella del cardinale, Vittoria, moglie di Guidobaldo II della Rovere. Che la tirò su assieme ai suoi tre figli: Francesco Maria, Isabella e Lavinia. E ai due figli del «cardinale cognato» Giulio della Rovere: Ippolito e Giuliano.Infine, nel 1571 (cinque anni dopo la morte prematura di Giulio Cesarini), venne l’ora delle nozze tra Giovan Giorgio e Clelia. Sposalizio per il quale la madre dello sposo, Giulia Colonna, avrebbe auspicato festeggiamenti adeguati al rango delle loro famiglie. Ma quel matrimonio dovette invece essere «festeggiato» nella Roma di Papa Ghislieri, dalla quale era bandita ogni forma di divertimento licenzioso. Una Roma quaresimale in cui Pio V ? su incitazione del «riformatore» Bernardino Carniglia, allevato alla scuola di Carlo Borromeo ? intendeva «rigenerare la città incorreggibile» inventando ogni giorno «nuove riforme acciò ch’il mondo non possa respirare». Al punto da ordinare «ch’in nessun monastero le monache possono tenere né cani, né gatti, né palombi maschi, né galli, acciò che non incitino lussuria alle castità loro». Il Papa in concistoro aveva sollecitato i cardinali a modificare il loro stile di vita, ad astenersi da «banchetti et crapule» e a evitare di girare per la città in cocchio, ingiungendo loro di indossare il cilicio e abiti cardinalizi. «A conferma della sua volontà di porre freno alle abitudini licenziose del clero», scrive Gigliola Fragnito, «Pio V aveva emanato all’inizio di quell’anno una bolla che vietava ai figli illegittimi dei chierici di succedere ai padri sia nei beni beneficiali sia in quelli patrimoniali? Un provvedimento che, riguardando anche i cardinali, dovette accentuare la cautela del padre di Clelia e indurlo a ricorrere ad ogni mezzo per dissuadere Giulia Colonna dal perseverare in quello che sembrava un progetto insensato».Niente feste dunque per il matrimonio di Clelia e Giovan Giorgio. Era evidente «che non tirava aria di festeggiamenti nuziali per una figlia naturale di cardinale» in quel febbraio del 1571, quando, invece di dedicarsi alle consuete mascherate, «ogn’uno attese ad andare alle prediche, et lettioni spirituali come fusse stato di Quaresima». Clima che generava apprensione nel cardinal Farnese, il quale temeva di veder compromesso, a causa di qualche sbavatura di carattere festaiolo, il sogno di diventare Papa. Fu stabilito che i giovani potessero fare il loro ingresso a Roma, da Grottaferrata, su una lettiga, ma era essenziale «che non s’intrasse in Roma con la sedia». Giulia Colonna dovette capitolare, accettando che la nuora facesse la sua entrata in città «nottetempo celata in una lettiga, non accolta né scortata da schiere di gentiluomini e gentildonne in cocchio, com’era usanza». Sulle «ragioni del cerimoniale ancora una volta era prevalso il miraggio della tiara». Poco tempo dopo il matrimonio, Giulia Colonna morì e Giovan Giorgio rimase così orfano sia di padre che di madre. Questa circostanza complicò le cose, perché da quel momento Giovan Giorgio fu sempre più insofferente nei confronti del cardinal Farnese, padre di sua moglie. E Clelia sembrava incoraggiare questa inclinazione del marito. Talché l’illustre porporato si era sentito in dovere di redarguirla.

Il «comportamento disinvolto» di lei, che sdegnava addirittura le funzioni religiose, angustiava non poco il cardinal Farnese. Anche se Gigliola Fragnito lascia intendere che «a premergli non era la salvezza eterna della figlia», quanto piuttosto le possibili ripercussioni delle sue «manifestazioni di irreligiosità», o di quelle che potevano apparire tali, «sulla maschera devota da lui recentemente indossata».Una prima figlia di Clelia e Giovan Giorgio morì qualche giorno dopo la nascita. Nel 1572 dalla coppia nacque un maschio a cui fu messo il nome del nonno paterno, Giuliano, e che si rivelò presto di salute cagionevole. Dopodiché i due non ebbero altri figli. O, meglio, Giovan Giorgio ne ebbe uno, fuori dal matrimonio, a cui fu dato il nome di Ascanio. Ben diverso il destino di Clelia da quello di Costanza Farnese, figlia di Paolo III, che di bambini ne aveva dato alla luce ben dieci. Fu comunque per il piccolo Giuliano che marito e padre di Clelia entrarono in conflitto. Entrambi pretendevano di curarne l’educazione e, come era ovvio che fosse, la spuntò Giovan Giorgio. Nel frattempo Roma era passata da Pio V e Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), Papa ultranepotista che gratificò il figlio Giacomo di cariche, rendite e feudi «consentendogli di condurre una vita sfarzosa che diradò le nubi addensatesi sull’Urbe».Giacomo Boncompagni, destinato ad essere grande amico di Giovan Giorgio Cesarini, andò a nozze (assai fastose) con Costanza Sforza di Santa Fiora, pronipote di Paolo III, dando inizio con quel matrimonio, che saldava il vincolo tra alcune importanti famiglie della nobiltà pontificia, a una stagione di spensieratezza. Stagione che iniziò con l’allontanamento di Bernardino Carniglia, l’uomo che aveva dato forma allo spirito riformatore di Pio V. Il suo «zelo fanatico non era più in sintonia con l’attitudine bonaria del Papa e con la smania di divertimento del figlio». Figlio che, per il giovedì grasso del 1581, impiegò tutti gli artisti presenti in città per allestire dentro il suo palazzo un teatro in cui si sarebbe svolto un «combattimento alla sbarra», un «allestimento talmente impressionante» da fare accorrere ad ammirarlo «non solo un gran numero de signore et baronesse ma ancora buon numero de cardinali». E al termine del torneo venne offerto un banchetto «che fu sontuosissimo et tale che veramente ha di magnificenza avanzato tutti gli altri che da molti anni in qua sono stati fatti in Roma». A questa «ritrovata voglia di godersi la vita partecipavano con pari impegno laici ed ecclesiastici, membri dei grandi casati feudali e delle famiglie del patriziato urbano, e il successo degli intrattenimenti mondani era misurato dal numero di cardinali e di belle donne che vi prendevano parte, nonché dal protrarsi dei festeggiamenti fino all’alba». Se a carnevale si intensificava la convivialità, «in altri periodi dell’anno ogni occasione era buona per organizzare intrattenimenti: nascite, battesimi, matrimoni, visite di personaggi illustri, ricorrenze religiose e civili».L’ormai anziano cardinal Farnese, prudentemente, si limitava ad allestire banchetti fastosi in occasione delle visite dei parenti, per esaltare la grandezza della sua famiglia e soprattutto per poter ricevere «splendidissimamente» nella sua residenza di Caprarola Gregorio XIII. Ma si concedeva con parsimonia a ricevimenti in casa altrui. Fu però costretto a presenziare al ricevimento che Giovan Giorgio offrì, in onore di Giacomo e Costanza Boncompagni, per prendere confidenza con quella Roma godereccia. Ricevimento nel quale il marito di Clelia fece combattere i suoi orsi con cani di Bretagna e di Corsica.

E in quell’occasione fu notato che alla festa partecipò anche il cardinale Ferdinando de’ Medici.Fu in quel periodo che il cardinal Farnese iniziò a lamentarsi della vita eccessivamente dispendiosa del marito di sua figlia. Il quale, oltre ad aver messo su una corte smisurata, si faceva notare per la crescente dedizione al gioco d’azzardo e alle prostitute. Passione che condivideva con il cardinale Medici e che meritò ai due un «rebuffo» da Gregorio XIII. Ferdinando de’ Medici si persuase che dietro quel rimprovero ci fosse lo zampino di Alessandro Farnese e di ciò convinse anche Giovan Giorgio. Il quale, per reazione, trascurò sempre più Clelia (che, per gelosia, uccise una presunta rivale di bassa estrazione sociale, la «bella Barbara»). L’unica cosa che adesso accomunava i due coniugi era il crescente distacco dal cardinal Farnese, il quale andava così perdendo l’unica figlia e, con lei, un’importante rete di alleanze tessuta per anni e anni. Clelia, scrive Gigliola Fragnito, «con la sua ribellione che rischiava di danneggiare l’onore delle due famiglie e di compromettere le aspirazioni del padre al papato, è lontana dall’incarnare l’immagine, accreditata in anni recenti dalla storiografia, di giovane sottomessa alla volontà maschile e indifferente alla propria sorte, la quale, come tanti altri giovani, avrebbe spontaneamente “interiorizzato” gli interessi della famiglia fino a diventarne attivamente partecipe». Non vi è dubbio, prosegue Fragnito, che essa offra «una testimonianza eloquente delle resistenze opposte ai modelli di vita femminile propugnati dalla Controriforma e della distanza che separa la concreta realtà ? solo che si tenti di farla riemergere da carte polverose ? dalle figure esemplari proposte dalla letteratura destinata alle donne su cui è stato costruito, alquanto frettolosamente, il profilo acquiescente e mansueto della sposa e della monaca». Ed è qui la parte più importante (e inedita) della sua identità per come viene alla luce dal libro di Gigliola Fragnito.Mentre il cardinal padre attua una lunga serie di ritorsioni ai danni di Clelia, si rinsalda sempre più l’amicizia all’insegna del bel vivere tra Giovan Giorgio Cesarini e il cardinal de’ Medici, un rapporto che, scrive Fragnito, «apriva crepe negli schieramenti fazionari e nelle loro logiche di potere, scombinando contrapposizioni ritenute tradizionalmente rigide e suscitando i peggiori risentimenti del suocero». Sarebbe, però, «troppo sbrigativo» ritenere che il legame tra il Cesarini e il Medici «fosse fondato soltanto sulla smania di divertirsi», prosegue l’autrice della Storia di Clelia Farnese, dal momento che «per quanto sciagurato, il Cesarini non era né sprovveduto, né privo di un certo intuito politico». Intuito politico che lo portò a stringere nel contempo rapporti sempre più forti con la famiglia del Papa Gregorio XIII (i Boncompagni) e a favorire con questo collegamento una triangolazione ad esplicito danno del Farnese. Giovan Giorgio si spinse addirittura a programmare il matrimonio del figlio suo e di Clelia, Giuliano, con la figlia di Paolo Giordano Orsini e Isabella de’ Medici, costringendo il suocero a uscire allo scoperto e a riaprire il conflitto con la famiglia fiorentina.A questo punto Giovan Giorgio volle essere ancora più provocatorio e nominò suo esecutore testamentario il cardinale Medici. A tale asse si aggiungeva adesso persino un rapporto dei due (Cesarini e Medici) con il cardinale Luigi d’Este, anch’egli sottratto all’influenza del Farnese. A questo punto il cardinale Farnese, sentendo che si avvicinava il tempo della successione a Gregorio XIII (morì il 10 aprile 1585), decise di correre ai ripari e chiese un incontro pacificatore con il rivale Medici, riavvicinandosi nel contempo a Giovan Giorgio e alla figlia. Ma il 20 aprile del 1585, all’età di (quasi) 35 anni, moriva di colpo Giovan Giorgio e la ventottenne Clelia, temendo di diventare nuovamente «proprietà» del padre (che nelle lettere definiva «crudelissimo nimico»), si intestardiva nella continuazione della politica del marito, con il quale pure da anni aveva rapporti assai freddi.

Fu in questo contesto che Alessandro Farnese dovette affrontare l’ultimo conclave in cui avrebbe potuto essere eletto Papa. Impegno vano: la strategia del suo rivale, cardinale Medici, imperniata su sua figlia Clelia (con la quale aveva stabilito, secondo quel che si diceva, una relazione amorosa), lo sconfisse e portò sul trono di Pietro Sisto V (al secolo Felice Peretti), che come prima cosa si augurò di «vivere tanto» da veder «finire sottoterra» molti cardinali, primo tra tutti il Farnese. Per colui che avrebbe voluto essere il successore di Paolo III, il secondo Papa Farnese del Cinquecento, era il segnale della disfatta.Clelia a questo punto, per marcare ancor più la distanza dal padre, rese esplicito il suo rapporto con il cardinale Ferdinando de’ Medici (o quantomeno si comportò in modo tale da ingenerare in tutti questo sospetto). Come reazione il padre, nell’ansia di renderla inoffensiva, la diede frettolosamente in sposa a Marco Pio di Savoia, marchese di Sassuolo e feudatario del duca di Ferrara (che aveva dieci anni meno di lei) al solo scopo, più che evidente, di tenerla lontana da Roma. E, per prevenire contestazioni da parte della figlia indisciplinata, fece sottoporre il futuro marito ad una mortificante «precauzione». Prima del matrimonio, riferisce Gigliola Fragnito, «i Farnese avevano costretto Marco Pio a “dare prova di sé” facendolo condurre da un servitore presso una “signora spagnola”, con la quale si era intrattenuto mezz’ora, al termine della quale le aveva donato la somma cospicua di trenta scudi d’oro». Secondo passaggio di questa strategia per riappropriarsi della sua famiglia fu quello del cardinal Farnese di «impadronirsi» del nipote, Giuliano, e di sottrarlo così all’influenza della madre. Il resto è storia di un marito, il Savoia, adultero, di Clelia che nuovamente uccide un’amante del coniuge. Dopodiché il cardinale de’ Medici, nell’ottobre 1587, abbandonò la partita e divenne granduca di Toscana. Il cardinale Alessandro Farnese morì due anni dopo, nel marzo del 1589. Clelia poté a questo punto far ritorno a Roma e sopravvisse alla morte del secondo marito ucciso in un misterioso agguato nel 1599. A Roma morirà nel settembre del 1613, preceduta di qualche mese dal figlio Giuliano. Il Seicento, di cui madre e figlio non avevano visto che l’alba, sarebbe stato, in tema di scandali e intrighi nel mondo della Chiesa, un secolo diverso dal precedente. Alquanto diverso. Anche per merito di Clelia e della sua ribellione.

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