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Le ombre del dopoguerra. Per una storia dell’Anpi (terza parte)

Visto il fallimento del sogno della rivoluzione proletaria, il Pci (e l’Anpi, di conseguenza) pensarono bene di dare alla resistenza comunista un volto più umano, trasformando dunque i carnefici in vittime. Esempio preclaro ne fu l’enfasi posta sul caso dei sette fratelli Cervi, oggi perpetuato con le immancabili, ogni 25 luglio, pastasciutte antifasciste tanto care all’Anpi. Non è il caso di parlare della vera motivazione della fine dei Cervi, di cui oggi si sa bene come vennero traditi dal doppiogiochista capitano Riccardo Cocconi della GNR, poi capo partigiano comunista col nome di Miro (lo si è incontrato in combutta con Didimo Ferrari Eros quando, entrambi dirigenti Anpi, organizzavano reti insurrezionali nel 1948).

La casa colonica dei Cervi di Gattatico (Reggio Emilia) da anni è stata trasformata in un museo corredato da una biblioteca donata a suo tempo dal deputato e studioso comunista Emilio Sereni: la cui visita sarebbe più interessante se non vi si mettesse ripetutamente in mostra la martellante retorica della “parte giusta”, respingendo qualunque altra interpretazione, osservazione, o, peggio, domanda. Il tutto in linea con la santificazione dell’antifascismo messa in atto dal Pci fin da quando Togliatti compì la sua prima visita ad Alcide Cervi, il papà Cervi (come viene inevitabilmente – e retoricamente – chiamato). Del resto, proprio questa “canonizzazione” dei fratelli martiri è stata allestita a suo tempo dal Pci con l’aiuto dello scrittore Italo Calvino e del giornalista dell’Unità Renato Niccolai cui si deve in realtà la stesura del libro I miei sette figli uscito a firma di Alcide. A quel volume il Pci dette la massima pubblicità, fino a farlo diventare un best-seller tra gli iscritti, e a questo seguì la concessione di sette medaglie d’argento e una d’oro, e dal solenne ricevimento di papà Cervi al Quirinale nel 1954. Tutto ciò dà l’idea di una speciale corsia preferenziale da parte delle istituzioni verso i Cervi, proprio mentre i parenti delle vittime degli altri eccidi nazi-fascisti venivano dimenticati in fondo all’armadio della vergogna di Palazzo Cesi assieme ai loro cari, e senza una lira di risarcimento. .

Non per questo però Anpi e Pci smisero di cospirare contro lo Stato italiano in vista di un possibile conflitto tra URSS e Usa e relativi alleati. Il primo documento in possesso del Ministero dell’Interno sull’organizzazione clandestina del Pci è un dossier del SIFAR, il servizio segreto militare dell’epoca. La relazione, datata 28 febbraio 1950, descrive nel dettaglio la struttura di comando, suddividendola per regioni: i capi politici che sovraintendevano all’apparato militare erano Luigi Longo e Pietro Secchia, mentre i capi militari, tutti legati all’Anpi, erano Arrigo Boldrini Bülow che dell’Anpi era il presidente, (ruolo ricoperto dal 1947 fino al 2006, e presidente onorario sino alla sua morte nel 2008), Ilio Barontini, agente del GRU sovietico sin dalla guerra di Spagna negli anni Trenta, Gisella Floreanini, Fausto Nitti e Mario Roveda. Nel documento sono riportati anche gli obiettivi militari e civili da colpire, la dislocazione delle forze in campo regione per regione, le strutture d’appoggio. Secondo il SIFAR, il Pci poteva contare su un esercito occulto di 250 mila unità, in gran parte iscritti all’Anpi, che sarebbero quadruplicate in caso di invasione da Est da parte delle forze del Patto di Varsavia.

A loro volta, i Servizi statunitensi erano  al corrente della potenzialità insurrezionale del Pci. Il console degli USA a Milano fu autore di una relazione sull’articolazione dell’organizzazione paramilitare clandestina: “A capo dell’apparato vi sarebbero Longo, Sereni e Grieco, a loro volta comandanti dalla sezione Comintern di Lubiana-Ginevra-Lisbona. Le operazioni militari sono gestite dall’ex-partigiano Cino Moscatelli [deputato comunista ed esponente di punta dell’Anpi, ndA]. L’articolazione interna è suddivisa in vari nuclei e settori comandati dalla legazione sovietica in Milano di Via Filodrammatici 5.” Secondo le fonti americane la forza così costituita avrebbe contato tra i 130 mila e 160 mila uomini, mentre altre stime ritenute più attendibili valuterebbero gli effettivi in circa 77 mila unità. Le corrispondenze riservate inviate nel 1950 al Dipartimento di Stato da due agenti che operavano in Italia dicevano che l’armata clandestina del Pci era forte di 75 mila uomini, i quali si addestrano sull’Appennino tosco-emiliano.

Un ulteriore rapporto del SIFAR (Oggetto: attività del Pci. Censimento) datato 22 settembre 1951 parla della schedatura degli elementi anticomunisti da rendere inoffensivi in caso di insurrezione: “Da accertamenti effettuati in merito alla notizia che il  Pci avrebbe ordinato alle organizzazioni periferiche [Pci e Anpi] di raccogliere ogni possibile notizia sulle persone e sull’attività di :

autorità civili, militari, religiose;

funzionari di P.S.- Carabinieri;

avversari politici;

è risultato che:

effettivamente alcune federazioni provinciali (Bologna – Viterbo – Terni) hanno organizzato il lavoro in questione. In qualche caso gli incaricati della raccolta sono stati muniti di schede appositamente preparate; in altre regioni (Milano – Udine – Genova – Bari – Napoli) il censimento – esteso in qualche provincia anche alle personalità più in vista ed aventi maggiore ascendente – fatto fin dal 1948, è mantenuto aggiornato. Inoltre, in questi ultimi tempi, in altre provincie1 (Gorizia – Caserta – Foggia – Bari – Sassari) elementi comunisti hanno tratto occasione dalla raccolta di firme per “l’appello ai 5 grandi” per prendere nota di coloro decisamente orientati in senso anticomunista.

Si può, quindi, dedurre che la direzione centrale del Pci., in epoca recente, ha rimesso a fuoco l’argomento, ciò che è indizio sicuro di previsione di doversi servire degli elenchi a scadenza non lontana.

Un rapporto del Ministero dell’Interno denuncia che negli anni tra il 1955 e il 1965 vennero ritrovati casualmente 73 cannoni, 319 mortai, 3.500 mitra, 3.700 pistole, 250 mila bombe a mano, molti chili di esplosivi di ogni tipo e ben 109 radiotrasmittenti. A cosa servissero le radiotrasmittenti, lo spiega il partigiano fiorentimo Siro Cocchi: servivano per comunicare di nascosto con i compagni rifugiati a Praga, cui venivano chiesti aiuti e consigli per addestrare e tenere in efficienza la macchina militare della Vigilanza rivoluzionaria.

Lo speciale di “Storia in Rete” sulla storia nascosta della Resistenza è stato pubblicato nella primavera 2020

Ancora nel 1969 i comunisti avevano depositi di armi, in luoghi imprecisati dell’Appennino ligure (forse anche nella parte appenninica compresa nella provincia di Pavia);

Luigi Longo era il “capo ideale” dell’organizzazione. L’ex colonnello del GRU (grado che il segretario del Pci rivestiva sin dalla guerra civile spagnola) sosteneva in privato che bisognasse “organizzarsi” per resistere contro “un golpe della reazione”. Dopo il colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile nel 1973, si diffuse infatti nel Pci l’idea che un golpe di destra fosse possibile anche in Italia. La doppiezza comunista ebbe di nuovo una sua grande stagione in quel “radioso” 1973. Da una parte il neo segretario Enrico Berlinguer e il suo riformismo; dall’altra la vecchia base stalinista-partigiana dell’Anpi e quella nuova, gruppettara-operaista, entrambe unite nella paura per la minaccia autoritaria e pronte a reagire militarmente contro le provocazioni “da qualunque parte provenienti”.

L’inverno 1973-1974 trascorse nella costante vigilanza operativa, uno o due gradini sotto il livello di allarme. Il 12 ottobre 1974 il generale Vito Miceli, al vertice del SID, il servizio segreto militare, fu arrestato, accusato di cospirazione contro lo Stato. “Secondo la rete informativa del Pci occultata dentro le forze armate, vi era la possibilità di un tentativo autoritario”.

Nell’organizzazione clandestina scattò l’allarme rosso. L’ordine di mobilitazione partì il 1º novembre 1974 direttamente da Via delle Botteghe oscure, emesso dall’ufficio organizzazione del partito. “Tutti i compagni più sicuri dovevano dormire fuori casa, in rifugi insospettabili”. Fu dato ordine alle cellule occultate nella Rai e nel Corriere della Sera di sabotare telecomunicazioni e giornale in caso di golpe. I miliziani misero sotto tiro il trasmettitore Rai di Monte Penice, mentre i compagni dell’apparato clandestino legato all’Anpi si schierarono nelle zone di rispettiva competenza, ritirando fuori le armi e i mortai. Tutto ciò fu fatto all’insaputa di Enrico Berlinguer e di molti dirigenti regionali a lui fedeli. Quando il segretario venne a sapere della mobilitazione, ordinò un’inchiesta. E alla fine dell’indagine Berlinguer decise di sciogliere le “Commissioni antifascismo” (dietro le quali si celavano gli uomini dell’apparato paramilitare del partito).

Oggi l’Anpi, sempre meno associazione partigiana, anche per ragioni anagrafiche, e sempre più associazione di estrema sinistra da centro sociale, prende posizione su tutto: dal referendum sulle riforma costituzionale di Renzi, all’immigrazione, da Casapound, alle case concesse ai rom, sul Salone del libro di Torino: insomma cose su cui un’associazione reducistica non si comprende perché debba parlare. Riesce difficile immaginarsi l’Associazione Alpini che sbraiti su chi possa o non possa fare un comizio o quella dei Granatieri di Sardegna che manifesti per boicottare un libro sgradito… L’Anpi è quindi un’associazione politica, oramai formata in massima parte da gente che è nata dopo la guerra e che si basa sui valori dell’antifascismo, insomma. Come scrive uno di loro:

“Un fatto del tutto normale derivante dalla scelta che le partigiane e i partigiani fecero nel Congresso di Chianciano del 2006 quando, consci della loro inesorabile scomparsa, decisero di aprire le porte dell’Associazione anche ai non combattenti per non far disperdere l’immenso patrimonio di valori e principi fondativi della resistenza”.

Sarà un fatto normale, non discutiamo: ma meno normale è che l’Anpi continui ad essere sovvenzionata dallo Stato, malgrado gli atteggiamenti vergognosamente negazionisti sulle foibe e l’esodo giuliano dalmata; infatti secondo l’Anpi di Rovigo:

 “Sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Bassovizza [sic]”

Deliri culminati in uno scandaloso congresso di fantastoria a Parma ma anche in ricorrenti e discutibili affermazioni sui crimini postbellici: basti citare l’affermazione dell’Anpi di Savona sulla tredicenne Giuseppina Ghersi, stuprata, seviziata ed ammazzata dai partigiani comunisti, che se lo sarebbe meritata (per una bambina violentata e uccisa non vale la melassa buonista e strappacore di papà Cervi…):

Giuseppina Ghersi – secondo Samuele Rago, presidente provinciale dell’Anpi –, al di là dell’età, era una fascista. Eravamo alla fine di una guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili. Era una ragazzina, ma rappresenta quella parte là[4]”. Ovviamente poi l’Anpi nazionale cercò di mettere una pezza a tali affermazioni: L’Anpi – è scritto in un comunicato della segreteria nazionale – ha sempre condannato gli atti di vendetta e violenza perpetrati all’indomani della Liberazione. E lo fa anche oggi rispetto alla vicenda terribile e ingiustificabile dello stupro e dell’assassinio di Giuseppina Ghersi. Assieme, ribadisce che singoli episodi, per quanto gravissimi, non intaccano i valori della Resistenza e della Guerra di Liberazione Nazionale, grazie a cui l’Italia, dopo anni di guerra, violenze e dittatura, ha conquistato pace, libertà e democrazia“.

Sempre l’Anpi savonese reagì con la bava alla bocca al fatto che in un monumento ai Caduti nel cimitero della città fossero state ricordate le Camicie Nere savonesi che avevano combattuto in Russia; la lapide venne nottetempo frantumata da sciacalli ben identificabili politicamente.

Alla luce della sua storia, l’Anpi non sembra certo essere l’associazione più adatta a tramandare i valori della libertà e della Costituzione repubblicana, come si è visto. Eppure continua a ricevere ancora oggi i maggiori contributi statali rispetto alle altre Associazioni combattentistiche e d’Arma, pur non essendolo più per motivi anagrafici: si pensi che il presidente Carlo Pagliarulo è nato nel 1949, quattro anni dopo la fine della guerra, ed è stato senatore del Pc, poi di Rifondazione comunista e del Partito dei comunisti italiani. Si tratta ormai solo del cavallo di Troia dell’estrema sinistra nelle istituzioni, incredibilmente dotato di un’autorità cui moralmente e storicamente non ha alcun diritto visto anche che si insiste a presentarla come L’ Associazione dei partigiani, e non, come s’è visto, UNA tra le quattro associazioni partigiane esistenti oggi (dal 2018 si è aggiunta l’Associazione nazionale partigiani cristiani…) per di più l’unica a rifarsi al passato stalinista delle formazioni comuniste.

Ed è l’unica associazione ad assumere atteggiamenti antagonisti anche rispetto alle istituzioni, come  accaduto il 25 aprile 2019 a Viterbo, dove l’intervento del presidente locale Anpi Mezzetti è stato caratterizzato da attacchi pretestuosi quanto ingiustificati alle nostre Forze Armate ed alle missioni all’estero, al punto che i militari presenti, con il generale Paolo Riccò, Medaglia di Bronzo al Valor Militare per i combattimenti di Check Point Pasta a Mogadiscio, sono stati costretti ad abbandonare il luogo delle celebrazioni di fronte alle affermazioni del dirigente locale dell’Anpi. Va poi sottolineato come spesso l’Associazione, o meglio, sue realtà locali, abbiano manifestata solidarietà con l’estremismo rosso, di area antagonista financo con le frange più estreme. Si pensi alle celebrazioni fortunanatamente evitate per l’indignazione dell’opinione pubblica, previste in onore del fondatore delle Brigate Rosse – gruppo terrorista cui, escludendo sequestri, ferimenti etc si devono 86 morti ammazzati in nome, sempre, della rivoluzione comunista – Renato Curcio da parte dell’Anpi di Foggia – con la scusa della consegna di una pergamena (o forse era una targa) in memoria di un suo omonimo zio partigiano. Evidentemente un brigatista rosso vale più di un militare, per certa gente…

Né ciò era una novità: ci riferiamo all’assassinio a Milano, in pretto stile gappista, del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972), crimine per il quale sono stati condannati in via definitiva Sofri, Pietrostefani e Bompressi, il quale ricevette la grazia da Giorgio Napolitano il 31 ottobre 2008. E qui entra in ballo l’Anpi di Massa, la città del killer del commissiario. Ne La Grande Bugia  Giampaolo Pansa riassume quanto avvenuto: “Dunque, Bompressi era ormai un graziato. Ma era pur sempre l’assassino di Calabresi: così attestavano le sentenze di più corti di giustizia italiane. Ma queste sentenze non dovevano valere nulla per l’Anpi di Massa. Che pensò, nientemeno, di festeggiare il graziato (…) lo testimoniano i dispacci di due agenzie. E soprattutto le cronache pubblicate l’ 8 giugno 2006 dal ‘Tirreno’ di Livorno e dall’edizione di Massa della ‘Nazione’. La prima scritta da Maurizio Centini e la seconda da Marzio Pelù. (…) La festa per Bompressi si svolse nel pomeriggio di martedì 6 giugno 2006. Nella sede dell’Anpi di Massa, in piazza Mercurio, durante una riunione della segreteria. Le cronache spiegano che Bompressi non è soltanto iscritto all’Anpi massese, ma fa parte di quella segreteria. Doppia festa, dunque: per un graziato e per un membro di quel club di ex partigiani. Un membro molto attivo che, mentre stava alla detenzione domiciliare, su richiesta dell’Anpi aveva ottenuto il permesso di lavorare per dieci ore al giorno nella sede di Massa (…) a sistemare l’archivio storico. Secondo le cronache della festa, il presidente dell’Anpi massese, Ermenegildo Della Bianchina, novantenne, detto ‘Gildo’, spiegò: ‘Ovidio è bravo per queste cose, preciso e scrupoloso. Infatti sta venendo fuori un grande ed esauriente archivio storico”.

Della Bianchina poi aggiunse: “La grazia a Bompressi conclude in modo positivo una vicenda che sembrava non dovesse mai aver fine. La grazia è un risultato che l’Anpi può annoverare a buon diritto anche dovuto, in parte, alla propria azione in questi anni”. Della Bianchina ricordò che l’interessamento dell’Anpi di Massa per la sorte di Bompressi era nato quando a presiedere l’associazione era Pietro Del Giudice, Vico, già comandante dei Patrioti Apuani. Fu lui, citiamo il discorso di Gildo, “Che si adoperò in ogni senso, con autorità istituzionali, giudiziarie e politiche, spendendo in maniera totale la propria autorità morale, nella convinzione dell’assoluta bontà dell’uomo Bompressi. Un uomo che, per le sue qualità e per le sue attività di solidarietà sociale, doveva essere considerato un patrimonio della nostra comunità. E ciò al di là dell’esito della complessa vicenda giudiziaria nella quale era coinvolto”.

La festicciola si concluse con un abbraccio al compagno Ovidio, al canto di Sventola la bandiera rossa. ‘T’amo con tutto il cuore o mia bellissima rossa bandiera‘ intonò Gildo, visibilmente commosso (così il Tirreno). E la Nazione scrive: Tutti i presenti l’hanno seguito nel canto e nell’abbraccio. Uno dei versi della canzonetta, per inciso, attacca la sbirraglia: perfetto, osiamo dire, per l’esecutore dell’assassinio di un commissario decorato di Medaglia d’Oro al merito civile dalla Repubblica Italiana, così come quella Norma Cossetto, seviziata e stuprata dai partigiani titini, il cui martirio viene costantemente negato da troppi iscritti alla stessa Associazione malgrado la concessione della massima onorificenza civile della Repubblica.

Piccola nota: chi scrive, invitato dal comune di Massa a parlare sugli eventi del confine orientale per il Giorno del Ricordo del 2019, è stato assalito dalla sinistra apuana al gran completo, in primis dall’Anpi, perché, malgrado sia autore di un buon numero di monografie sul Secondo Conflitto Mondiale, avrebbe profanata (testuale) con la sua presenza la sala dedicata alla Liberazione (Massa venne occupata senza combattere dai nisei nippo-americani del 100th/442th Go for broke il 10 aprile 1945 dopo che i tedeschi l’avevano evacuata nottetempo) perché, orribile dictu!, collaborava con il Primato Nazionale. Mentre il killer di Calabresi (colonna e patrimonio della loro comunità) collabora con la medesima Associazione nazionale partigiani d’Italia.

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