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Napoleone, il furto è l’anima della pinacoteca di Brera

Quello che fa la vera grandezza di Napoleone sono le imprese civili: il Codice Civile, la fondazione di grandi musei nazionali come il Louvre e Brera, la scoperta dei tesori archeologici dell’antico Egitto. All’alleanza tra tecnica, scienza e potere, che era nello spirito dei tempi, aggiungeva una sincera curiosità/passione di autodidatta, e la consapevolezza che la vera grandezza e l’autostima d’un Paese, l’elevazione dei suoi cittadini passano attraverso grandi imprese culturali e scientifiche.

di Ernesto Ferrero su

In lui si saldavano la capacità di pensare in grande, l’efficienza manageriale e la genialità del comunicatore che sa costruire un’immagine vincente di sé e del suo Paese. Dalla crisalide di un giovanissimo generale, messo a 26 anni a capo dell’armata cenciosa che contro ogni previsione aveva sconfitto piemontesi e austriaci, era saltata fuori anche la farfalla di un geniale ministro dei beni culturali. Certo, praticava metodi a dir poco spregiudicati. Al consueto e già pingue bottino di guerra aveva deciso di aggiungere la requisizione di importanti opere d’arte che avrebbero arricchito consistentemente il Museo nazionale da poco aperto al Louvre. Di lì a qualche anno l’avrebbero ribattezzato per gratitudine Musée Napoléon.

In Italia come altrove, il saccheggio viene studiato a tavolino da un team di specialisti che sanno benissimo cosa rubare. Torino, Milano, Modena, Parma, Verona, Venezia, Firenze, Roma: nulla sfugge agli insaziabili e competenti predatori francesi. Nel maggio 1796 a Milano ancora si combatteva al Castello Sforzesco che già il commissario Tinet era all’Ambrosiana, dove requisiva il disegno preparatorio di Raffaello per la Scuola di Atene al Vaticano, dodici disegni e il Codice Atlantico di Leonardo, il prezioso manoscritto delle Bucoliche di Virgilio con le miniature di Simone Martini, e cinque paesaggi dipinti da Jan Brueghel per Carlo Borromeo. Quando nel 1815 si tratta di restituire il maltolto, un inventario annovera 5233 pezzi complessivi, di cui 2000 dipinti e sculture di primissima qualità.

La grande arte come simbolo della nuova grandeur francese. Fu lo stesso Napoleone a confessare che l’idea gli era venuta proprio in Italia. Toccò a Milano beneficiare del nuovo corso perché il futuro imperatore aveva deciso di farne una delle sue capitali, insieme a Parigi e a Francoforte (Roma no, non gli piaceva, c’era il Papa, e non c’è andato mai). Di qui le ambiziose realizzazioni urbanistiche: l’Arco della Pace, il Foro Buonaparte, la trasformazione di corso Venezia nell’arteria principale della città, la villa di Monza. E Brera. Che fu progettato come museo nazionale nel 1805, quando Napoleone cinse con le sue mani anche la corona ferrea del Regno d’Italia, minacciando guai a chi avesse provato a toccargliela.

Brera era una sede in qualche modo obbligata: già sede dei Gesuiti dal 1571 per volere di san Carlo Borromeo, poi vero polmone culturale sotto l’Austria, abituale luogo d’incontro per i Verri, Beccaria, Manzoni, con ricco contorno di Osservatorio Astronomico, Biblioteca, Accademia di Belle Arti, Orto Botanico.

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Primo promotore della nuova istituzione fu il dinamico segretario dell’Accademia, Giuseppe Bossi, che vi fece entrare dipinti, gessi, intere collezioni. Ma se per il Louvre l’uomo-chiave fu Vivant Denon, per Brera fu Andrea Appiani. Milanese di modesta famiglia, nato nel 1754, studi proprio all’Accademia, neoclassicista con morbidezze leonardesche, è prontissimo a fiondarsi sul Vincitore, e ritrarre lui, i famigliari e i suoi generali in modi che suonavano irresistibili al parvenu corso. Tra i due scocca un’intesa profonda, una simpatia anche umana. Appiani diventa il David italiano, affresca Palazzo Reale, dipinge l’Apoteosi di Napoleone come Giove trionfatore, viene invitato a Parigi, miete cariche e onori. E fa convergere sul neonato museo (dove nel frattempo sono state allestite le “sale napoleoniche” tuttora attive) centinaia di opere da tutta Italia. Le ambizioni del nuovo Cesare si saldano perfettamente con la progettualità più avanzata dell’illuminismo lombardo.

Tra i milanesi e quei giovani francesi, irruenti, magari poco pratici di bon ton ma famelici di vita (Philippe Daverio li ha spiritosamente paragonati a una banda di motociclisti rockettari e goderecci), era scoppiato l’amore. Nobili famiglie come i Serbelloni, i Melzi d’Eril e i Sommariva si schierarono all’unisono con il nuovo padrone. Anche se Giuseppina trovava Milano provinciale, la corte si distingueva per un fuoco d’artificio di balli, feste e ricevimenti. I milanesi non s’erano mai divertiti tanto. La benefica scossa napoleonica finirà stabilmente introiettata nel loro Dna.

Se alla data dell’inaugurazione ufficiale, il 15 agosto 1809, in cui Napoleone compiva i quarant’anni, si contano 139 dipinti, tra cui il Matrimonio della Vergine di Raffaello, la Madonna del Bellini, i teleri del Carpaccio e il San Gerolamo di Tiziano, quattro anni dopo sono già 899. Da allora, cardinali, aristocratici e sovrani si impegnano in una gara di mecenatismo. Nel 1824 arriverà il fenomenale Cristo morto del Mantegna, donato dal Bossi che lo aveva acquistato per suggerimento del Canova. Ma intanto nel 1813 Appiani esce paralizzato da un ictus che gli risparmia le afflizioni della restaurazione. Morirà nella sua casa di corso Monforte quattro anni dopo, mentre l’imperiale committente si sta rassegnando all’angosciosa deriva di Sant’Elena. Perfettamente consapevole che la sua idea di collezionismo di Stato gli avrebbe garantito l’ammirazione dei posteri.

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Inserito su www.storiainrete.com l’11 agosto 2009

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