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“Non demonizziamo i Borbone. Ma no a miti anti-unitari”

Pubblichiamo una “Lettera al Direttore” de “Il Mattino” a firma di Giuseppe Polito, Direttore Biblioteca Storica Regina Margherita Pietramelara (CE).

Gentile Direttore, leggo da alcune settimane nelle pagine culturali del Suo giornale, l’appuntamento domenicale che il dottor Gigi di Fiore dedica al 150° anniversario della nascita del Regno d’Italia, con articoli dedicati a fatti e persone dell’epoca risorgimentale. Debbo ammettere e mi perdoni, che “Il Mattino” sorto per dare voce ai meridionali ed alle loro problematiche, affidando al dottor di Fiore, persona stimatissima, il racconto del Risorgimento non fa, a mio modesto avviso, opera di corretta informazione in special modo nei riguardi delle nuove generazioni.

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da “Il Mattino”, lettera al direttore del 26 gennaio 2011

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Sappiamo benissimo, in quanto li abbiamo letti tutti o quasi, il pensiero storico e culturale del dottor di Fiore, legato ad associazioni e centri culturali neo-borbonici, i quali erroneamente stanno “cavalcando” da anni forti risentimenti anti-nazionali, “scimmiottando” il più becero leghismo! Continuare a “sparare” sul Risorgimento e sui suoi protagonisti non aiuta certo, alla luce di nuovi documenti, a comprendere che il processo unitario seppur con molte problematiche era ormai necessario e vitale per far sì che “un Paese di morti” (Lamartine), “un’espressione geografica” (Metternich), diventasse al parti degli altri grandi Paesi europei, una sola entità: politica, economica, sociale, culturale. Anche l’espressione “fatta l’Italia, ora bisogna fare gli Italiani”, erroneamente addebitata a Massimo d’Azeglio, venne coniata nel 1896 dal senatore Ferdinando Martini in altro contesto lessicale, semmai “fatti gli Italiani, bisognava fare l’Italia”…

Persistere ad accusare il Risorgimento e l’unificazione dei mali odierni del Mezzogiorno, significa non avere letto bene la storia, quella con “S” maiuscola, né tantomeno gli scritti di studiosi e storici: da Giuseppe Galasso e Sergio Romano, da Lucio Villari al compianto mio maestro Alfonso Scirocco, scomparso da pochi mesi. E’ un quarto di secolo che tento, di illustrare in convegni, conferenze, scritti, la grande stagione risorgimentale, che fu principalmente una vera e propria “rivoluzione” non solo politica ma culturale e sociale, coinvolgendo strati di popolazione fino ad allora emarginata e costretta all’esilio, alla prigionia, al patibolo…

Nessuno vuole demonizzare i Borbone, hanno avuto molte qualità che col tempo tuttavia sono andate disperse in un “paternalismo” inadeguato a rispondere alle nuove realtà della società meridionale, le quali nonostante i controlli di Polizia, anelavano a seri cambiamenti costituzionali e riformisti. I lettori del “Il Mattino” devono sapere che la principale impresa economica del Regno delle Due Sicilie pre-unitario era la Chiesa, con un clero che numericamente superava di gran lunga quello di un Paese molto più grande come la cattolicissima Francia! Il patrimonio ecclesiastico ammontava a ca.40 milioni di Lire dell’epoca! Al clero era appaltata anche l’istruzione pubblica, infatti l’analfabetismo nel Sud era dell’86% con punte del 90% in Sicilia, terra mai amata dai Borbone. Tra il 1830 ed il 1859 gli anni di regno di Ferdinando II, la spesa pubblica fu irrisoria, nel 1858, ultimi dati contabili certi, su un attivo complessivo di 32.800.000 ducati, lo Stato borbonico ne spese per opere pubbliche appena 2.216.000 a fronte di 11.911.000 per il mantenimento delle forze armate e dei reggimenti mercenari di bavaresi e svizzeri a tutela della famiglia reale! Indigenti i quartieri popolari della capitale, Napoli, la quarta metropoli d’Europa, gli ospedali erano così fatiscenti che gli stessi poveri della città si rifiutavano di ricoverarsi!

Per le nozze del duca di Calabria Francesco con Maria Sofia di Baviera, il governo decise di tagliare i fondi per la Sanità onde coprire le ingenti spese. Su 1.828 comuni napoletani, ben 1.431 non erano collegati viabilmente tra loro; esistevano in un Reame così esteso solo tre strade postali! Alla vigilia dell’Unità, vi erano solo 125 Km di ferrovie, nonostante il Paese avesse avuto il primato della prima ferrovia italiana, questi pochi chilometri collegavano solo alcuni siti regi e re Ferdinando II aveva vietato che le locomotive passassero sotto eventuali gallerie per timore di attentati! L’assenza di adeguate opere pubbliche ritardò pesantemente l’adeguamento del Sud al resto dell’Italia. Nel 1864 la linea ferroviaria adriatica collegò Bari a Bologna seguita da altri tratti nel volgere di pochi lustri onde consentire anche alle regioni di meridionali di usufruire di questa importante innovazione sia dal punto di vista economico che sociale. Su 9 milioni di abitanti, gli studenti del Regno erano solo 66mila!, un terzo dei comuni era sprovvisto di scuole primarie.

Lo storico Paolo Macry osserva: “E’ clamoroso il gap che divide Napoli tanto dai grandi centri burocratici, dalle altre ex capitali, dalle città dello sviluppo economico, quando da numerosi centri di taglia media e con forti caratteri rurali, come può essere il caso di Bologna”. Per quanto riguarda l’agricoltura, in ingegnere borbonico, Carlo Afan de Rivera scriveva nel 1833: “Dacchè le nostre pianure e specialmente quelle in riva al mare rimasero spopolate ed incolte per effetto delle calamità politiche, cessò affatto l’industria dell’uomo nel regolare il coro delle acque che le attraversavano. Nel tempo stesso i disboscamenti e dissodamenti operati ne’ monti (dalle popolazioni ritiratesi ad abitare là), grandemente contribuirono a disordinare l’economica delle acque stesse che devastarono le sottoposte pianure”. La tanto decantata industria pre-unitaria del Sud, viveva esclusivamente sotto l’ombrello protezionistico delle commesse statali, in un mercato, quello europeo che aveva abbandonato tale politica da decenni. Come affermò l’economista e futuro Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, in riferimento alla politica fiscale borbonica, “…Troppa essere la predilezione per le imposte sui consumi e sommo il timore di scontentare i ceti medi con le imposte sulle professioni, sui commerci e sulle industrie…

Le segretezza dei documenti finanziari; le cause del debito pubblico napoletano (meno consistente di quello piemontese) ma dovuto alle spese di occupazione di soldatesche straniere accorse nel Regno a ristabilire e difendere la dinastia, la inconsistenza delle opere pubbliche intese a crescere la potenza economica del Paese…Non esiste documento storico il quale possa essere a maggior ragione ricordato dai teorici delle finanze a sostegno delle tesi che le imposte gravavano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulle punte delle baionette straniere, com’era il governo borbonico…”. Un’attenta e critica analisi del sistema finanziario dei Borbone fu descritto con dovizia di particolari da Giovanni Carano-Donvito, collaboratore di Piero Gobetti, nella quale pose in luce come l’ex governo napoletano “…se poco chiedeva ai suoi sudditi, pochissimo spendeva per essi e questo pochissimo spendeva anche male…”. Secondo gli studiosi del credito, Muzzioli e Demarco, “…la penuria di piazze bancabili era anche responsabile, insieme alla scarsa mobilità dei capitali, del ristagno nella circolazione della moneta. Si calcola che all’unificazine la circolazione monetaria delle province napoletane fosse doppia di quella di tutto il resto d’Italia”. Brigantaggio e camorra furono sempre al “soldo” del governo borbonico che utilizzava questo “cancro” a proprio uso e costume in determinati periodi, anche per controllare i sovversivi ed i liberali!

Il patriota e letterato molisano, Gabriele Pepe, affermava: “Quando si parla dell’Italia meridionale e delle regioni circostanti Roma, non bisognerebbe mai dimenticare che si parla di paesi nei quali il brigantaggio è stato endemico per secoli; dove, a dirla con schiettezza, il brigantaggio era una classe sociale e il capo brigante una forza contesa dai politici”. Un’intera generazione di intellettuali, giornalisti, politici, ecc., chiamati in modo dispregiativo da Ferdinando II, “pennaruli”, furono costretti a lasciare le proprie famiglie e case, trovando “rifugio”, primo esempio di emigrazione integrata, proprio nel tanto “odiato” Piemonte sabaudo, ove venne votata il 16 dicembre 1848 la prima legge a favore degli immigrati provenienti dalle altre regioni italiane. Potrei continuare a lungo…., sperando nella Sua benevolenza nel voler pubblicare, se possibile queste righe. RingraziandoLa per l’attenzione porgo i miei più cordiali saluti e l’augurio di un proficuo lavoro.

Pietramelara, lì 26 gennaio 2011

Giuseppe Polito

Direttore Biblioteca Storica Regina Margherita Pietramelara (Ce)

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Inserito su www.storiainrete.com il 20 febbraio 2011

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