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Italia coloniale

Perché la colonizzazione era giuridicamente legittima?

La prima colonizzazione, quella dei secoli XVI e XVII, era un’attività improntata sul mero sfruttamento economico a vantaggio degli stati che vi si dedicarono.
Negli anni tale attività mutò e si rivolse, in via teorica, alla diffusione della civiltà fra i popoli considerati, all’epoca, barbari o semibarbari con particolare beneficio per questi, seconde le nuove teorie promulgate da Auguste Comte nel 1844 con il Discours sur l’esprit positif.
Friedrich Engels per esempio il 22 gennaio 1848, nell’anno in cui venne pubblicato “Il manifesto del Partito comunista”, scrisse a proposito della conquista francese dell’Algeria: “In fin dei conti, secondo la nostra opinione è veramente di buon auspicio che il capo degli arabi sia stato catturato […] la conquista dell’Algeria è un evento importante e felice per il progresso della civiltà.”
La nuova colonizzazione doveva dunque ispirarsi a criteri umanitari e razionali superiori a quelli precedenti che avevano mirato ad un immediato profitto, spesso procurato con violenza e sacrificando gli interessi vitali delle razze indigene.
Proprio su queste basi si resse il colonialismo italiano. Rendendo produttive le terre e le acque, costruendo stradeferrovie e porti, organizzando traffici commerciali e creando una serie di istituzioni indispensabili per un elementare benessere. La nuova colonizzazione di stampo “romano” non mirava più al mero miglioramento della condizione degli indigeni ma quanto ad attirarli nella cerchia della propria civiltà per assimilarli. Come ebbe a dire Stefano Jacini, ministro dei lavori pubblici del Regno d’Italia dal 1864 al 1866: “Non il solo pane esce dalla terra lavorata, bensì un’intera civiltà”. In poche parole non si può dire che la bandiera della civiltà servisse solamente a coprire gli interessi egoistici degli Stati ma che, più che civilizzarli, si volesse conquistarli moralmente e al contempo poter sfruttare le risorse dei luoghi da essi abitate.
Angelo Piccioli nel 1933 scriveva: “Questo grande sviluppo di vie di comunicazione ha anche un grande significato morale: le strade costituiscono, dopo la conquista, la più durevole presa di possesso. Anche l’indigeno – soprattutto l’indigeno – comprende che l’opera stradale è opera di dominio durevole; che essa è la vera presa di possesso della colonia: si crea soltanto sui suoli che si intende dominare per sempre”.
Nel primo dopoguerra i nuovi mandati internazionali si delinearono seguendo l’idea che gli Stati più progrediti dovessero prendersi cura dei popoli politicamente immaturi e che provvedessero al loro governo “fino al momento in cui si trovassero in grado di reggersi da sè”1.
Esattamente quello che fu uno degli obiettivi fondamentali, tra il 1950 e il 1960, dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (AFIS). Infatti La Carta delle Nazioni Unite, nel trattare dell’Istituto dell’amministrazione fiduciaria, all’articolo 76 riportava uno degli obiettivi fondamentali: “promuovere il progresso politico, economico, sociale ed educativo degli abitanti dei territori di amministrazione fiduciaria, ed il loro progressivo avviamento all’autonomia ed alla indipendenza secondo quanto si addice alle particolari condizioni di ciascun territorio e delle sue popolazioni ed alle aspirazioni liberamente manifestate dalle popolazioni interessate, e secondo i termini delle singole convenzioni di amministrazione fiduciaria”.
In poche parole la colonizzazione era concepita “come una specie di funzione assistenziale regolata da principi puramente altruistici”2. E questo avvenne proprio con l’AFIS, che favorì l’emancipazione del popolo della Somalia, non tanto per una concessione sentimentale o, appunto altruistica, ma perché era il modo migliore per conservare quei vincoli creati attraverso l’opera colonizzatrice.
Per le considerazioni di funzione sociale nel diritto internazionale venne a codificarsi il diritto di colonizzare ed espandere i propri possedimenti coloniali nelle regioni non civilizzate e soprattutto venne stabilito il principio che parificava le diverse forme di acquisti coloniali agli effetti di responsabilità degli Stati, principio espresso chiaramente nell’art. 10 della Convenzione di Sain-Germain del 1919: “Les Puissances signataires reconnaissent l’obligation de maintenir, dans le régions relevantes de leur autorité, l’existence d’un pouvoir et des moyens de police suffisants pour assurer la protection des personnes et des biens”.
Ma a questo diritto si potrebbe opporre il “diritto” di quei popoli di vivere indisturbati nelle loro terre e mantenere inalterati i loro ordinamenti e usi tradizionali.
Si potrebbe. Ma si deve considerare che gran parte dei territori colonizzati, all’epoca erano considerati dal punto di vista internazionale, territori nullius, cioè giuridicamente vacanti.
Sempre Engels, in riferimento all’acquisto coloniale italiano nel mar Rosso, parla infatti di terre libere, nullius: “Per quanto riguarda questa terra libera, non c’è dubbio che la più grande richiesta che oggi si possa fare al presente governo italiano è che nelle colonie siano assegnate proprietà terriere, per la coltivazione diretta, ai piccoli contadini”.
Infatti molte regioni dell’Africa all’inizio del 900 “non erano infatti né possedimenti, a qualsiasi titolo di alcuna Potenza coloniale, né organizzati in alcuno Stato vero e proprio come tale riconosciuto o riconoscibile dalla società internazionale degli stati dell’epoca; eccezione fatta pei pochi scali costieri, categoricamente e nominativamente riconosciuti (con insignificante retroterra di pochi chilometri)” 3.
Inoltre il sentire comune era che “popoli colonizzatori e popoli barbari non costituiscono originariamente una comunità giuridica […] I colonizzatori si espandono in paesi incivili, spinti dalle loro necessità e dalle loro ambizioni, valendosi di tutti i mezzi a loro disposizione per riuscire negli intenti da queste prefissi; gli indigeni di quei paesi, o tollerano il nuovo ordine di cose adattandovisi, o lo subiscono passivamente per esaurimento di energie reattive, avviandosi alla dispersione e all’estinzione, o reagiscono, a seconda del loro temperamento, a seconda dei loro costumi, a seconda della rigidezza o dell’elasticità, della severità o della mitezza del regime coloniale”4.
Ma gli interessi dei due coinvolti hanno svolgimento al di fuori di ogni limitazione giuridica, ad esclusione di quello che lo stato colonizzatore può avere nei confronti di un altro stato.
Indubbiamente i colonizzati possono parlare di diritti violati ma non può che trattarsi di diritti emergenti dall’ordinamento giuridico dei colonizzatori ma è altresì vero che eventuali tali diritti si accordano con i principi di civiltà e di equità più diffusi nel mondo.
Quindi la questione generica dell’illegittimità della colonizzazione, nei termini nei quali di solito viene posta non è ben fondata, al di là del fatto che “l’indiscutibile importanza della funzione civilizzatrice delle colonie non basta a dare ragione della sua soluzione affermativa”5.
Però “la civiltà e il progresso che sono il risultato dell’opera colonizzatrice creano una ragione etica universale di preferenza a favore di chi tale opera promuove in confronto di chi, o per tornaconto, o per inerzia, o per in‘ sufficienza di mezzi se ne astiene, onde gli interessi dello Stato colonizzatore, che corrispondono alle esigenze di perfezionamento della società umana, non debbono rimanere subordinati agli interessi egoistici di altri Stati che non siano tutelati da speciali convenzioni”6.

NOTE
1. Borsi U., Principi di diritto coloniale, Cedam, Padova, 1938
2. Ibidem
3. Mondaini G., La legislazione coloniale italiana nel suo sviluppo storico e nel suo stato attuale (1881-1940), Ist. Per gli studi di Politica Internazionale, Milano, 1941
4. Borsi U., Principi di diritto coloniale, Cedam, Padova, 1938
5. Ibidem
6. Ibidem

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