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Putsch in the USA

Forse non tutti sanno che anche gli U.S.A., negli anni Trenta, hanno rischiato di finire sotto una dittatura militare. La storia del mancato golpe è davvero poco conosciuta ma merita di essere ricordata, se non altro per il fatto che, del tentato putsch, ne parlò uno dei protagonisti: il major general (generale di Divisione) Smedley Butler (1881-1940), il militare più decorato di tutti i tempi, che, a partire dal conflitto ispano americano del 1898, ha servito in Messico, Haiti, Honduras e Nicaragua, così come ha combattuto nella guerra contro le Filippine, nella Rivolta dei Boxer in Cina e nella Prima guerra mondiale.

Nei suoi 34 anni di servizio nel corpo dei Marines si meritò ben 16 medaglie al valor militare, e, andato in pensione, divenne un leader dei vari gruppi di veterani che lo vedevano come il personaggio maggiormente carismatico e rappresentativo capace di lottare per i loro diritti. Fu in questa veste che, nel 1934, venne avvicinato da un gruppo di ricchi industriali che lo volevano alla guida di un colpo di stato contro il presidente Roosevelt.

CREDIAMO DI MORIRE PER LA PATRIA MA MORIAMO PER LE BANCHE - VEJA.it
Smedley Butler

Il generale denunciò la cosa in un discorso che divenne famoso, e venne convocato davanti a una Commissione d’inchiesta del Congresso, che però non volle andare a fondo della questione. Furono però trovate prove certe dell’esistenza di quel complotto, fallito per la denuncia di Butler contro quello che sarebbe diventato, nella famosa espressione di Eisenhower, “il complesso militar-industriale” che guida la politica degli Stati Uniti a partire dalla Seconda guerra mondiale.

Del Generale Smedley Butler è rimasto famoso il discorso contro la guerra pronunciato nel 1933: «La guerra non è altro che un racket: ossia qualcosa che non è ciò che appare alla maggioranza della gente. Solo un ristretto gruppo di persone sa di che cosa si tratta, perché viene condotta a danno di tutti per il beneficio di pochi.

Io credo nella difesa adeguata dei confini, e niente altro. Se una nazione ci dichiara guerra, bene, allora combatteremo. Il problema è quando, in tempo di pace, il dollaro guadagna solo il 6%, e così cominciamo ad agitarci e varchiamo l’oceano per ottenere il 100%. E così la bandiera segue il dollaro e i soldati seguono la bandiera.

Personalmente, non andrei più in guerra, come ho fatto, per proteggere gli sporchi investimenti dei banchieri. Ci sono solo due motivi per combattere: per proteggere le nostre case e per difendere la Costituzione. La guerra per altri motivi è quello che ho definito un “racket”, di cui, inconsapevolmente, ho fatto parte anch’io. Ma, ora, non lo farei più. Ho contribuito a rendere il Messico sicuro per gli investimenti americani, soprattutto quelli dei petrolieri. Ho aiutato a trasformare Haiti e Cuba in un posto decente perché la National City Bank potesse incassare lauti guadagni, e ho partecipato allo stupro di una mezza dozzina di repubbliche centro-americane a beneficio di Wall Street, così come ho aiutato a trasformare il Nicaragua in una fonte di reddito per la banca internazionale Brown Brothers, mentre ho favorito gli interessi dello zucchero americano nella Repubblica Dominicana, e ho difeso e tutelato gli interessi della Standard Oil in Cina. Guardandomi indietro, credo che avrei potuto dare non pochi consigli ad Al Capone: in fondo lui ha imposto il suo racket soltanto in tre distretti, io in tre continenti».

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