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Storia, non storie

Umberto II come Trump? I paragoni impossibili del Corriere della Sera

Ogni 2 giugno si spera che finalmente nelle rievocazioni si possa fare storia sine ira et studio sul referendum del 1946 che sancì la fine della Monarchia e l’avvento della Repubblica nel nostro Paese. Anche questo anno la speranza è andata delusa: come sempre molta retorica e poca ricostruzione obiettiva degli avvenimenti. Ma la retorica questa volta ha raggiunto livelli ineguagliati, trasformandosi in parodia della storia, da parte di Antonio Carioti, diventato lo storico tuttologo del “Corriere della sera”, per il quale cura tutti i principali appuntamenti e i volumetti commemorativi degli ‘eventi storici’.

Nella presentazione del supplemento de “la Lettura” per il 2 giugno il Nostro ha dato il meglio di sé con affermazioni che vale la pena di citare. Dopo aver ricordato la lunga complicità con il regime fascista (sic), dimenticando il 25 luglio, si afferma che la Monarchia non avrebbe potuto “presentarsi come garante di una nuova convivenza civile” in quanto troppo a lungo il partito di corte “si era rivelato un freno a qualsiasi sviluppo nel senso di una maggiore partecipazione popolare”, dimenticando che il suffragio universale maschile era stato adottato nel 1911 dal governo Giolitti con l’appoggio della Monarchia.

Ma fin qui siamo a un normale festival dei luoghi comuni. Il meglio viene quando si arriva al referendum del 2 giugno 1946, dove il Nostro dichiara che il risultato a favore della Repubblica fu netto con due milioni di voti in più, “ma i sostenitori della Monarchia parlarono di brogli e sollevarono cavilli per non riconoscere il verdetto delle urne”.

In realtà le cose andarono diversamente. La legge sul referendum era stata messa a punto dal governo del CLN e controfirmata dal Luogotenente del Regno, Umberto di Savoia. Il voto era stato abbinato a quello per l’elezione dell’Assemblea costituente e la vittoria nel referendum sarebbe dovuta andare alla lista che avesse ottenuto la maggioranza dei votanti (attenzione al termine). L’esito del voto sarebbe stato annunciato dalla Corte suprema di cassazione, che avrebbe anche dovuto vagliare eventuali ricorsi. Gli aventi diritto al voto erano 28 milioni, ma 3 milioni non poterono votare: un milione e mezzo erano ancora prigionieri e un altro milione e mezzo non ricevette il certificato. Bolzano e la Venezia Giulia erano escluse dalla competizione in attesa che la loro sorte venisse decisa.

Sembrava tutto chiaro, ma non era così. Dopo alterni annunci il ministro dell’Interno, il socialista Giuseppe Romita, diede i risultati dei voti validi che vedevano effettivamente la Repubblica in vantaggio di circa due milioni di voti. Ma bisognava attendere la Corte. Il 10 giugno il suo Presidente, Giuseppe Pagano, prese atto che i risultati non erano definitivi, mancavano i voti di circa 100 seggi, c’erano infiniti ricorsi e, aggiunse incidentalmente, mancava il numero dei votanti perché non erano state considerate le schede nulle e quelle bianche, determinanti per decidere il numero dei votanti e quindi il quorum necessario per stabilire la maggioranza. E proprio su questo punto era stato presentato un ricorso da esponenti monarchici: un ricorso giuridicamente fondato e non un cavillo.

Fu il panico. Il governo insisteva perché venisse proclamata la Repubblica, mentre Umberto II chiedeva che, secondo quanto previsto dalla legge, si attendesse l’annuncio dei risultati definitivi. Si determinò un braccio di ferro costellato anche da incidenti e scontri con morti e feriti, interrotto dalla decisione del Re di lasciare l’Italia nel pomeriggio del 13 giugno, dopo che il governo nella notte precedente, con atto unilaterale, definito da Umberto “un gesto rivoluzionario”, aveva proclamato l’avvento della repubblica.

Restava ancora in sospeso la richiesta della Corte: verificare la legittimità dei circa 20 mila ricorsi e determinare il numero delle schede bianche, nulle o annullate. Fu una corsa contro il tempo che vide all’opera stuoli di impiegati con mezzi di fortuna e registri incompleti e pieni di dati scritti a matita e corretti. Qualcuno chiese la riconta, ma il prudente Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nonché capo del Pci, in una precedente seduta del governo aveva annunciato che le schede ‘probabilmente’ erano già state distrutte.

Il 18 giugno la Corte di cassazione, contro il parere del suo procuratore generale, Massimo Pilotti, e del suo presidente, Giuseppe Pagano, decise che il milione e mezzo di schede bianche e nulle non andavano prese in considerazione nel computo dei votanti (il che avrebbe ridotto la maggioranza a 200-300.000 voti). Così il 19 la prima Gazzetta ufficiale della Repubblica poteva annunciare finalmente la nascita del nuovo ordine istituzionale.

Come si vede qualcosa di più dei cavilli di cui parla Carioti, il quale, afferma anche che “il re Umberto II si comportò un po’ come Donald Trump: partì per il Portogallo senza aver riconosciuto la sconfitta, dopo aver diffuso un proclama in cui parlava di ‘sopruso’.

Qui siamo veramente al grottesco. Umberto II partì appena si rese conto che la situazione stava diventando pericolosa, volendo evitare a qualunque costo i pericoli di una nuova guerra civile. A differenza di Trump non intervenne mai sullo svolgimento degli scrutini e non parlò mai di brogli. Voleva che venissero rispettate le procedure previste dalla legge sul referendum, cosa che non avvenne, e per questo parlò di “gesto rivoluzionario”. Esattamente il contrario dell’atteggiamento tenuto da Trump in occasione delle elezioni americane e dell’assalto a Capitol Hill.

Sono un repubblicano convinto e alle radici repubblicane nella storia del nostro Paese in passato ho dedicato un saggio che dall’antica Roma arriva ai giorni nostri. Ma la verità storica non può essere stravolta e a Umberto II va riconosciuta la correttezza istituzionale e reso almeno l’onore delle armi.

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