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Usa: la superpotenza che non sa vincere le guerre

di Fabrizio Tonello – da “Lunedì Rosso”, newsletter de “Il Manifesto” – 23 agosto 2021

Domenica 15 agosto, è caduto il settantaseiesimo anniversario dell’ultima vittoria militare degli Stati Uniti, quella contro il Giappone imperiale e militarista. Da allora, per tre quarti di secolo, l’America non ha più vinto una guerra vera, malgrado il suo statuto di superpotenza e le incalcolabili spese militari dedicate a questo scopo.

Incredibile, vero? Eppure le immagini di questi giorni dall’Afghanistan non dovrebbero sorprendere perché esistono dozzine di libri sul fatto che il Pentagono è la macchina da guerra meno efficiente del pianeta, quanto meno nel rapporto qualità-prezzo. Bastava guardare alle date per capirlo: nel 1950 gli Stati Uniti intervengono in Corea ma tre anni dopo devono accettare un armistizio che lascia le cose come stavano al punto di partenza e il regime nordcoreano è ancora lì, 68 anni e tre milioni di morti dopo. L’esercito americano subisce oltre 50.000 perdite. Nel 1964 intervengono in Vietnam, da cui dovranno ritirarsi a partire dal 1973 e dove lasceranno circa tre milioni di morti vietnamiti e circa 60.000 vittime americane.

Dopo quel famoso 25 aprile 1975, con le immagini di centinaia di persone che cercavano di salire sull’ultimo elicottero che prendeva il volo dal tetto dell’ambasciata americana a Saigon, ci sono state parecchie operazioni militari ma di vittorie in guerre vere e proprie nessuna. Certo, i marines hanno invaso l’isoletta caraibica di Grenada dove era stato democraticamente eletto un governo di sinistra (1983) e hanno sloggiato dal potere Manuel Noriega a Panama (1989) ma in entrambi i casi si trattava soprattutto di dimostrazioni di forza a uso interno, come se la Juventus andasse in giro a pavoneggarsi per aver battuto il Cisternino e il Monterotondo.

Se per “successo” in una guerra intendiamo il raggiungimento degli obiettivi politici che ne sono all’origine, è chiaro che né la prima né la seconda guerra in Iraq hanno ottenuto lo scopo. Nel primo caso (1991) il regime di Saddam Hussein dovette ritirarsi dal Kuwait ma rimase al potere; nel secondo caso (2003) Saddam fu sconfitto e poi catturato e impiccato ma un governo iracheno democratico e filoccidentale non si è mai veramente consolidato: le elezioni del 2018 sono state vinte dall’antiamericano Muqtada al-Sadr.

Lo stesso è avvenuto in Afghanistan: l’invasione del 2001 riuscì a cacciare i talebani e a privare al-Qaeda delle sue basi ma, di nuovo, l’obiettivo di installare a Kabul un governo fedele e stabile non fu mai realizzato e i talebani non scomparvero mai come forza militare organizzata. In effetti, dopo l’eliminazione di Osama bin-Laden in Pachistan nel 2011 gli Stati Uniti e gli alleati della Nato non avevano ragioni valide per restare in Afghanistan e la guerra si trascinava solo per il potere dell’establishment politico-militare di Washington che cercava di “salvare la faccia”.

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Non è un caso che Donald Trump abbia avuto successo nell’attaccare la “guerrafondaia” Hillary Clinton nel 2016: la maggioranza degli americani era convinta da tempo che occorreva andarsene. Oggi i repubblicani sono scatenati nell’attaccare Biden per il ritiro ma in realtà il presidente democratico sta attuando l’accordo di Doha del febbraio 2020, negoziato dall’amministrazione Trump. I media di tutto il mondo riempiono gli schermi con le caotiche e drammatiche immagini dell’aereoporto di Kabul ma l’America profonda voleva mettere fine allo stillicidio di uomini e denaro in Afghanistan già da dieci anni.

Oggi i generali e i diplomatici da salotto attaccano Biden per la “sconfitta storica” di questi giorni ma il ritiro (caotico e codardo come tutte le ritirate nelle guerre coloniali) era il risultato inevitabile di una frattura trentennale fra l’opinione pubblica e le élite di Washington.

Dopo il 1989, l’apparato militare-industriale ha cercato in ogni modo di tenere accesi focolai di conflitto qua e là sul pianeta, per giustificare la propria esistenza, ma i cittadini erano ben più reticenti e perfino l’ondata di patriottismo e bellicismo seguita agli attacchi dell’11 settembre 2001 durò ben poco. Scomparsa l’Unione Sovietica e consolidata l’alleanza commerciale con la Cina, il pubblico americano ha avuto solo un modesto entusiasmo per le guerre in Medio Oriente, in particolare quando si prolungavano: sul campo le vittorie in Iraq e in Afghanistan sono state questione di poche settimane ma la permanenza in questi due paesi si è prolungata per quasi due decenni, una durata quintupla del tempo che ci volle per sconfiggere Hitler e Hirohito fra il 1941 e il 1945.

Molti, a Washington come a Bruxelles, avrebbero preferito lo status quo: quello di una guerra a bassa intensità, in cui il controllo della città di Kabul venisse spacciato come difesa della libertà e della democrazia in tutto il paese ma questo inganno non poteva durare più a lungo.

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